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Antonio Pietrangeli: comunista, femminista, sovversivo

Aggiornamento: 5 giorni fa

"[…] nelle altre sceneggiature, negli altri film che facevamo, la donna presentata era una mignotta o una madre o una sorella, e valevano un po’ come maschere teatrali. Con Antonio si è fatto un lavoro diverso".

Così Ettore Scola, regista e sceneggiatore, descriveva il lavoro fatto insieme ad Antonio Pietrangeli e Ruggero Maccari sulla sceneggiatura del film del 1963 La parmigiana, mettendo in evidenza la diversità con gli altri film che, oggi, formano il canone della commedia all’italiana. Diversità interamente attribuita da Scola alla mano di Pietrangeli, sia direttamente – nell’ultima parte della citazione – sia indirettamente, tramite l’uso del verbo “facevamo”. Attraverso la prima persona plurale, Scola pone se stesso e gli altri registi e sceneggiatori della commedia all’italiana su un piano diverso rispetto a quello di Pietrangeli, facendogli così, da un lato, onore, evidenziando l’originalità dei suoi temi, dall’altro, contribuendo alla marginalizzazione dello stesso nel panorama cinematografico contemporaneo, che lo ha condannato al ruolo di outsider.

Pietrangeli fa infatti, almeno sulla carta, parte di quella schiera di registi che hanno contribuito alla creazione della commedia all’italiana, un genere di derivazione neorealista, ma più cattiva e grottesca e che, nei suoi film più brillanti, si è spinta tante volte a giocare con i limiti imposti dalla censura e dal pudore, portando sullo schermo personaggi che, secondo il pensiero dell’epoca, erano immorali, quali omosessuali, comunisti, adulteri, ladri e criminali d’ogni sorta. Questi caratteri iconici che hanno formato l’immaginario del cinema dell’epoca sono accomunati, nelle loro differenze, da un elemento fondamentale: sono tutti uomini. O quasi. Pietrangeli, in aperta controtendenza, ha fatto delle donne le protagoniste assolute delle sue commedie, tanto che, su un totale di dieci film, ben sette hanno come protagonista una donna. E non, come si potrebbe pensare, utilizzandole come dei simboli alienati da ogni simpatia dello spettatore – caratteristica dei personaggi femminili del cinema di Antonioni, nel quale la donna è l’idealizzazione di disillusione e sofferenza – bensì indagando, attraverso i loro personaggi, la psiche delle donne nell’Italia del boom economico.

Come detto in precedenza, Antonio Pietrangeli è una figura particolare nel contesto della commedia all’italiana, cresciuto come critico di sinistra sulle pagine di Cinema e di Bianco e Nero e passato poi al cinema come sceneggiatore per Visconti e Rossellini, fin dalle sue pagine giornalistiche possiamo ritrovare in lui un interesse per il ruolo delle donne nel cinema, arrivando anche ad analizzare alcuni film calandosi nei panni di una spettatrice, tramite quello che potremmo definire un cross-dressing intellettuale.  Gli anni in cui si muove Pietrangeli, del resto, sono gli stessi in cui Simone de Beauvoir pubblicava Il secondo sesso, testo che diede la spinta necessaria alla nascita del femminismo di seconda ondata. Non è quindi impossibile pensare che il regista italiano fosse a conoscenza delle nuove teorie di genere e che, influenzato dal nuovo fermento che metteva in discussione l’idea stessa di “donna”, ne sia stato colpito tanto da renderle parte del suo processo creativo.


Dora interpretata da Catherine Spaak in La parmigiana
La parmigiana, Dora tiene testa al fidanzato poliziotto in un ribaltamento visivo delle dinamiche di potere.

D’altro canto, però, la propensione di Pietrangeli a catturare l’interiorità dei personaggi femminili può essere ricondotta alla sua fede politica: il suo cinema è infatti fondato sulla sovversione del potere e dell’autorità. Pur attraverso una lente cinica che non permette di vedere via d'uscita, Pietrangeli critica aspramente le fondamenta della società sua contemporanea e non manca mai di tendere affondi verso i pilastri del potere, su tutti le cosiddette forze dell’ordine, bersaglio di commenti sardonici, sguardi caustici e, come in La Parmigiana (1963), componente antagonista e simbolo dello status quo, oltre che dello sguardo patriarcale. Un atto marxista, dunque, quello di scegliere una prospettiva femminile, la prospettiva dell’inferiore che si ritrova a tentare di sopravvivere in un mondo che nega il suo diritto ad esistere se non come ingranaggio al servizio del potere altrui. Tuttavia, come succede anche in altri casi, la teoria del filosofo tedesco si trova a coincidere con le istanze femministe, che in questo periodo, proprio a causa dei diversi rispecchiamenti tra le due, ne avevano adottato il linguaggio come mezzo per sostenere la causa.


È quindi difficile stabilire quanto della poetica di Pietrangeli derivi dalla politica e quanto dal rinnovato interesse per la donna come figura sociale. È però certo che i suoi film, grazie a questa ambiguità, beneficino di una lettura che tiene in considerazione entrambe, così come è certo che Pietrangeli, in veste di regista, sceneggiatore e critico, abbia ribadito la sua vicinanza al movimento per la liberazione delle donne in Italia; se anche così non fosse, basterebbe guardare i suoi film per capire quanto essi siano il frutto di una lunga e continua riflessione sui due temi. Spesso, infatti, nelle protagoniste di Pietrangeli il desiderio di riscatto di classe e quello di asserzione dell’individualità femminile collimano; nel corso delle loro vicende tentano quest’impossibile scalata solo per poi scontrarsi con la dura verità: i mezzi proposti dalla società affinché le donne possano emanciparsi, come il matrimonio o la fama, si rivelano essere solo carta regalo luccicante che ha come scopo quello di sviare l’attenzione dal vuoto che contengono. 


Perfetto esempio di quanto detto sopra è Adriana (Stefania Sandrelli), protagonista dell’ultimo film completato in vita dal regista, Io la conoscevo bene (1965). Adriana è una giovane ragazza che, apparentemente, vive la vita senza alcun pensiero o preoccupazione, saltando di relazione in relazione come di lavoro in lavoro e di canzone in canzone. O, almeno, questo è quanto riesce a captare lo sguardo maschile che la circonda e come, in un primo momento, viene presentata allo spettatore. Con il proseguire del film, però, scopriamo che l’approccio alla vita di Adriana altro non è che un modo che ella adotta per difendersi dalla stessa. Figlia di poveri contadini toscani, scappata a Roma per sfuggire il passato e trovare una strada al successo tramite il cinema, il suo rifiuto di riempire la vita sembra quasi essere un modo per negare la realtà della sua situazione: gli abusi da parte di uomini di potere, il dolore per aver abbandonato la sua famiglia, unito alla lacerante consapevolezza di non poter, né voler, tornare indietro. Divisa tra due mondi che la rifiutano, quello della classe contadina e quello della borghesia romana, Adriana rivendica l’unico diritto a cui sente di poter fare appello, la sua individualità, tramite l’alienazione e il rifiuto di piegarsi alla volontà altrui.


Adriana interpretata da Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene
Adriana in una scena del film Io la conoscevo bene, l'ombra sul muro e la divisione dello stesso tramite la colonna catturano bene il senso di inadeguatezza e la voglia di scappare della protagonista

Adriana interpretata da Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene
Adriana vista tramite il male gaze

Pietrangeli, ormai regista navigato, offre in Io la conoscevo bene un’ulteriore prova della sua lontananza dal cinema italiano. La storia è raccontata in maniera asincrona, facendo uso di flashback la cui natura di ellissi narrativa è segnalata solo dall’improvviso sguardo in macchina di Adriana, una tecnica quasi da Nouvelle Vague, corrente da cui l’Italia si è sempre tenuta lontana. Riflettendo l’alienazione della sua protagonista nella regia, Pietrangeli tiene lo spettatore a distanza, spingendosi a riprodurre, nelle prime scene, lo sguardo maschile attraverso un primo piano sul corpo di Adriana stesa a prendere il sole. La critica del regista non è rivolta a un’ipotetica e non meglio definita “società” ma, tramite la scelta di identificare la macchina da presa con lo spettatore, accusa tutti i presenti in sala di essere complici della tragedia a venire. È questo un elemento caratteristico della sua regia, che in tempi recenti ha generato dei dibattiti nelle discussioni femministe, in quanto, malgrado sia utilizzato spesso come mezzo critico, è pur sempre lo sguardo di un uomo in una posizione di potere.


Ma le innovazioni di Pietrangeli non si fermano qui: uno degli aspetti più interessanti è infatti il linguaggio cinematografico che adotta, volto a riflettere il linguaggio di Adriana stessa. Il film è pieno di riferimenti visivi alla cultura pop, ha una fotografia patinata, quasi da rivista, e fa grande uso di canzoni dell’epoca. Adriana è infatti appassionata di musica – cosa che viene prontamente denigrata da uno dei suoi amanti – e la colonna sonora diventa parte integrante della narrazione, un modo per avvicinare lo spettatore al sentire di Adriana, ma, soprattutto, un modo per raccontare la storia tramite i mezzi che avrebbe utilizzato Adriana stessa. L’intento mimetico del racconto sfuggì però ai critici del tempo, che, anzi, tacciarono la regia e la sceneggiatura di superficialità. Oggi, invece, Io la conoscevo bene si rivela essere un film che, proprio grazie al modo in cui è raccontato, mostra la grandezza di Pietrangeli come un regista che, anziché limitarsi a raccontare i disagi sociali delle donne con la condiscendenza di uomo, ne adotta il linguaggio, mettendo al centro non sé stesso, ma il personaggio.


Come se queste ragioni non fossero sufficienti ad alienargli la simpatia dell’epoca, Pietrangeli lascia che le sue protagoniste, Adriana inclusa, compiano scelte controverse, se non anche amorali, come il rifiuto del matrimonio, il ricorso all’aborto performato illegalmente, e il suicidio, il tutto senza mai condannare questi atti, anzi riconoscendoli come unica soluzione al dramma dei personaggi che li compiono. Pietrangeli, rifiutandosi di aderire ai canoni imposti dall’industria, condanna sé stesso alla fine delle sue protagoniste: la sua breve carriera da regista, terminata in una tragedia sul set di Come, quando, perché (1969), è stata caratterizzata dall’esclusione del cineasta romano dal canone classico, sia in vita che in morte, ed è solo in tempi recenti che il suo nome è iniziato a circolare nuovamente, grazie al lavoro fatto da studiose femministe, tra cui Emma Katherine Van Ness, che hanno riconosciuto la portata sovversiva del suo opus.  


g.c.


1 commento


Ospite
5 giorni fa

articolo molto interessante su una figura da riscoprire e indagare

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