L’Eco dei fiori sommersi: nell’abisso della memoria con Rosa Maietta
- Marta Frugoni

- 30 set
- Tempo di lettura: 6 min
Rubrica: Sguardo sul reale
Nel pesante silenzio di un archivio, vagando tra gli scaffali polverosi, una tartaruga compie la sua marcia, lenta ma costante. Seguendola, anche noi spettatorə ci ritroviamo immersə – o forse sarebbe meglio dire sommersə – nei racconti celati in quei pesanti faldoni. Questo è l’incipit del lungometraggio del 2024 L’Eco dei fiori sommersi, presentato in anteprima al Filmmaker Festival di Milano, già premiato al Milano Film Network e al Bellaria Film Festival, grazie al quale Rosa Maietta e la sua troupe, volutamente tutta al femminile, si propongono di riportare alla luce dei materiali d’archivio, impedendo che le storie ad essi legate rimangano nel buio.
Il progetto nasce da un’esperienza precedente della stessa regista, ovvero la realizzazione di un documentario in occasione del restauro di Sala Catasti, nell’Archivio di Stato di Napoli; un tempo, questo, in cui Maietta ha maturato la consapevolezza della specialità del posto, degno di una maggiore apertura e di un racconto — pensato inizialmente insieme all’ex direttrice Candida Carrino — che restituisse l’essenza profonda di un luogo spesso sconosciuto ma strabordante di memorie, relegato alla sola funzione accademica.

“L’intenzione era di iniziare una campagna anche sui social, lanciando #lacasadellestorie; Carrino ha infatti deciso di coinvolgere varie iniziative, chiedendo a Ladoc – la casa di produzione per cui lavoro – di girare un altro documentario, sempre nell’Archivio. Credo che nessuno avesse bene in mente il risultato, Ladoc mi ha chiesto se fossi interessata, voleva dare uno stampo autoriale ed io ho colto subito l’occasione essendomi già trovata molto bene.” Rosa Maietta
Per Maietta, il secondo step, fondamentale quanto difficoltoso, è stato selezionare le storie da raccontare, considerata la mole di materiale, soprattutto burocratico e giuridico, che va dall’XI secolo fino a metà 900; sono entrate in gioco le stesse archiviste, silenti personaggi apparentemente secondari del documentario, a cui la regista si è rivolta per capire la strada da percorrere. Maietta le definisce le sue “traghettatrici” e, dopo aver scoperto che tutte, privatamente, stavano svolgendo delle ricerche riguardo a determinati processi storici, attente soprattutto a storie di donne, ha deciso di lasciarsi guidare dal loro lavoro e di mettersi in ascolto, affidandosi al suo istinto. Condotta attraverso il mare di documenti, la regista ha interpretato manoscritti indecifrabili riportando a galla storie che altrimenti sarebbero rimaste nell’oblio.
“[Dobbiamo] stare attente più al metodo che al merito delle carte. Ma il nostro lavoro non è solo questo. Si finisce per appassionarsi alle storie, alle persone. Entra in gioco l’emozione.” Fortunata Manzi- ex-archivista all’Archivio di Stato di Napoli

“[Le archiviste] mi hanno insegnato ad interpretare le carte dal punto di vista umano, non solo tecnico e giuridico; a fine riprese, anche loro hanno ringraziato me per aver sottolineato questo aspetto del loro lavoro che va troppo spesso perduto. Ho continuato le mie ricerche tramite i database e, a mano a mano che indagavo, mi accorgevo che tutte queste testimonianze, nonostante fossero molto datate, erano estremamente attuali: l’archivio si è rivelato culla di una memoria storica universale e collettiva. Immergendomi negli abissi di quelle carte, ho provato molte emozioni: mi sono commossa e, soprattutto, arrabbiata; nel momento in cui incontravo una storia che mi colpiva particolarmente era come guardare negli occhi la donna di cui leggevo, si creava istantaneamente una connessione. Non uso spesso la parola “politico”, ma un racconto come questo diventa necessariamente una questione politica: proprio come capita nella vita reale, cerco di fare dei gesti politici ogni giorno, anche nel piccolo. Tutte le mie ricerche mi sono servite a capire ciò di cui volevo parlare e come farlo.”
R.M.
L’Eco dei fiori sommersi unisce il lato documentaristico e performativo – trattando tematiche quali l’aborto, le violenze fisiche e verbali, ma anche l’amore e l’emancipazione – all’uso creativo di materiali d’archivio, sfruttando la tecnica del found footage.
“Il mio primo amore è l’interesse per il riuso, nato grazie al regista brasiliano Jùlio Bressane, che usa il suo stesso vecchio archivio in una maniera inaspettata. Ho avuto poi il privilegio di lavorare con il team di Enrico Ghezzi al film Gli ultimi giorni dell’umanità e mi sono resa conto in prima persona della potenza di un materiale temporaneamente archiviato. Sento una profonda connessione sia con gli archivi audiovisivi, sia con quello cartacei: è una sensazione che accomuno molto all’innamoramento. Capita che all’improvviso il mio sguardo cada su un dettaglio che tocca qualcosa di viscerale e incontrollato, o che mi ricorda la mia infanzia, oppure sento un odore particolare… ogni fotogramma è come un colpo di fulmine. Mi piace andare “oltre il visibile”, i luoghi che l’archivio ci permette di visitare vanno oltre la memoria.” R.M.
Il rispetto della regista verso i filmati d’archivio si evince dall’utilizzo che ne viene fatto, ponderato e mai riempitivo: l’intento è trarre delle emozioni da un linguaggio, quello dei documenti dell’Archivio di Stato, che di norma viene visto come freddo e statico, per trasformare la scrittura “maschile” in una più empatica.

“Il mio obiettivo era far trasparire l’emozione che io stessa avevo provato leggendo quei documenti, ottenere uno stile 'più caldo' che si distaccasse da quello dei giudici di fine Settecento, ovviamente tutti uomini, ci tengo a precisare. Quindi ho inserito delle parti che forse risulteranno in contrasto con i temi del film, come dei fiori che sbocciano dopo il racconto dell’aborto di Linda; o il filmato delle signore che fabbricano queste roselline di carta che per me simboleggiava un lavoro minuzioso, di cura – come quello delle stesse archiviste – ma anche una ripetitiva catena di montaggio. Da cinefila, mi piace tantissimo mixare i vari media, il cinema, la musica, il disegno… trovo che la commistione dia sempre risultati interessanti.” R.M.
Un altro elemento essenziale all’interno del documentario, suggerito dal titolo stesso, è l’acqua, la cui simbologia è capace di descrivere a pieno l’immersione nelle carte dell’archivio, “travolgenti quanto le maree equinoziali”. Dal punto di vista cromatico e sonoro, L’Eco dei fiori sommersi costringe lə spettatorə a tuffarsi nella visione: il suono è ovattato, i colori freddi e scuri, proprio come una nuotata negli abissi. Tuttavia, in profondità sono presenti forme di vita che non esistono in superficie; solo raggiungendo il fondo, potremo scoprire le donne di cui parla Maietta insieme alle loro testimonianze.
La libertà creativa di L’Eco dei fiori sommersi si trova anche negli inserti animati – disegnati appositamente da Gaia Alari – e nella colonna sonora di Rosalia Cecere, composta ad hoc.
“Conosco le figure con cui ho lavorato da anni, ci stimoliamo a vicenda. Ho avuto la fortuna di essere molto libera, un privilegio dal punto di vista tecnico e artistico, e di poter far affidamento sulle persone che mi circondavano.” R.M.

Come i “fiori secchi schiacciati fra le pagine della storia”, di cui parla Margherita Vicario riferendosi al suo film d’esordio Gloria!, i “fiori sommersi” di Rosa Maietta sono donne oppresse dalle loro stesse storie, costrette a disintegrarsi in un archivio polveroso.
“Mi sento in dovere di ridare voce a donne che di voce in capitolo, sulle loro vite, non ne hanno avuta e purtroppo spesso andrà così: perennemente osservate, talvolta poco protagoniste del loro destino. Mi sono considerata fortunata ad aver trovato delle storie umane e col tempo queste donne sono diventate mie amiche, mie sorelle… sono parte di me. Entrare in un archivio vuol dire portare rispetto alle storie che leggo, abituarmi al ritmo lento del viaggio nella memoria che sto percorrendo, un’impresa che necessita pazienza, proprio come l’amore. [...] Alla fine, mi sento rappresentata dalla tartaruga che rimane nell’archivio, perché, proprio come me, il suo tempo non finisce: anche io non uscirò mai dalle storie che ho letto.” R.M.
M.F.





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