Esplorare il cinema italiano con Valia Santella
- Francesca Viapiana

- 1 ago
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 10 ago
Valia Santella, lungo la sua carriera, ha esplorato tantissimi aspetti del cinema italiano, lavorando come sceneggiatrice, regista e segretaria di edizione. Ha collaborato con registə come Valeria Golino, Nanni Moretti e Marco Bellocchio. Parallelamente insegna sceneggiatura alla Fondazione Fare Cinema di Bobbio (PC) e crede ancora fortemente nell’energia dellə giovani e del cinema del futuro.

Raccontaci qual è stato il tuo percorso e quali ruoli hai assunto nell’ambiente del cinema.
Sono partita dal teatro perché i miei genitori lavoravano nel settore, ma il mio desiderio era quello di avvicinarmi al cinema. Non ero riuscita ad entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, quindi ho iniziato a cercare possibilità di lavoro sui set a Napoli, la mia città. La primissima cosa che ho fatto è stata l'assistente volontaria per il film Kamikazen - Ultima notte a Milano di Gabriele Salvatores – con cui avevo già lavorato a teatro. Tuttavia, da quell’esperienza non ho tratto praticamente nulla, perché in quanto assistente volontaria, ero lontana da dove accadevano veramente le cose. Per me la svolta è avvenuta stando sul set di Matilda del 1990 di Antonietta De Lillo e Giorgio Magliulo: il primo giorno di set Donatella Botti, bravissima aiuto regista e segretaria di edizione, poi produttrice, mi ha insegnato le prime cose sulla continuità delle riprese.

Da lì ho fatto la segretaria di edizione per 10 anni. È un lavoro meraviglioso e lo consiglio a chi si vuole avvicinare al mondo dei set, però al tempo stesso ritengo che l'esperienza debba essere limitata nel tempo. Quindi, ho preso in mano il mio percorso e mi sono riavvicinata alla prima motivazione: fare la regista. Ho realizzato dei cortometraggi, poi un documentario prodotto dalla Sacher Film, all’epoca formata da Nanni Moretti e Angelo Barbagallo; loro mi hanno poi invitata a ragionare su un lungometraggio, Te lo leggo negli occhi, che ho realizzato ormai 21 anni fa. Dopo questo film mi sono messa in dubbio proprio sulla scrittura, come se avessi percepito che non era abbastanza solida. Non me lo sono detta razionalmente, è una di quelle cose che succedono nella vita: tu sei in crisi per qualcosa e la vita a volte ti offre la soluzione, ti spiega il perché. In quel momento Valeria Golino, che già conoscevo, mi ha proposto di scrivere con lei, prima un cortometraggio, e poi, insieme a Francesca Marciano, il suo film d’esordio Miele. Era nel mio percorso approdare alla scrittura e ormai mi ci sto applicando da più di 10 anni. Ora, però, sto tornando alla regia: ho girato 4 dei 10 episodi della serie che ho scritto Prima di noi.
Com’è l’ambiente del cinema in Italia? Come si può trovare una donna al suo interno?
In Italia siamo molto indietro rispetto, per esempio, alla Francia, in cui esistono direttrici della fotografia famose a livello internazionale. Da noi, il reparto fotografia è ancora monopolizzato dagli uomini. Nonostante questo, ci stiamo lasciando alle spalle la vecchia idea del set come un luogo militaresco e cameratesco, grazie anche al fatto che ci sono sempre più registe donne e che il mondo sta cambiando. Però, esistono ancora organizzatori e aiuto registi della vecchia scuola che hanno come linguaggio quello del potere, del comando.

La questione del potere è politica: provo a gestire il mio ruolo senza pensare di avere un potere sulle vite e sul lavoro dellə altrə, cerco sempre una forma di collaborazione. Credo fermamente che applicare buone pratiche nel piccolo sia la vera molla per incidere sul grande: portando dei cambiamenti nelle nostre relazioni e nel nostro lavoro, si influisce sul mondo che ci circonda. Questa è una regola di vita che mi sono data.
Io considero il cinema un'arte collettiva. È chiaro che quando si fa cinema d’autore lə regista ha la sua visione e l'organizzazione del lavoro è pressoché piramidale, ma ogni faccia di questo caleidoscopio è molto interessante e per questo sono contenta di aver attraversato più aspetti della regia e della scrittura.
Ovviamente il cinema è un’industria che muove molti soldi e quindi ogni ruolo, ogni persona, ha una responsabilità anche economica. Più la responsabilità è grande, più il costo dell'errore è alto: questo ha portato ad una chiusura rispetto alla collaborazione, ma è l’insieme delle nostre competenze che crea un film, non l'unicità di una competenza.
Ci sono spazi in cui le donne che fanno parte di questo ambiente possono confrontarsi e lottare insieme?

Io facevo parte di Maude, il Movimento delle lavoratrici dello spettacolo, verso il 2010, ma è nato troppo presto. Attualmente vi è il Festival di Cinema e Donne di Firenze che è dedicato al cinema femminile e al cui interno è ripartito un dibattito tra donne che lavorano nel cinema, che ha avuto già due momenti assembleari: le tematiche sono urgenti e riguardano le nuove pratiche sul lavoro che permettano una maggiore mobilità all'interno dei ruoli senza chiusure di genere, in cui forme di prevaricazione o di abusi vengano denunciate e subito messe sotto gli occhi di tuttə, perché a volte l'abuso può essere di tipo psicologico, non necessariamente fisico. Ci si interroga anche su che tipo di welfare avere, perché una delle problematiche di tutta l'Italia, in generale, è nelle scelte di vita che deve fare una donna: nel momento in cui ha un figlio, che tipo di sostegno può avere nel mondo del lavoro? Poi si aprono anche discorsi un po' più ampi, come: che tipo di immaginario vogliamo adottare?
Spiegaci meglio il ruolo della segretaria di edizione. Perché pur essendo così importante a volte viene considerato superfluo o bistrattato?
Innanzitutto io sostengo che il termine “segretaria di edizione” andrebbe abolito, ma per ora in italiano non abbiamo un'alternativa. Per essere neutrali, si può dire “script supervisor”, anche se odio usare inglesismi. In più non dovrebbe essere chiamata segretaria, perché non è segretaria di nulla. Il suo nome deriva dal fatto che è un ruolo di coordinamento tra le riprese e l’edizione, ovvero tutta la fase del montaggio e della post-produzione: questo appellativo, però, suggerisce che sia la segretaria del montatore, quando in realtà quello che fa sul set è tantissimo. Non solo si assicura che le scene siano raccordate tra loro a livello di movimenti e che tutto venga girato (i film non si girano in ordine), ma controlla anche la continuità narrativa, conosce tutte le inquadrature e ha un rapporto costante con l'immagine che si crea e con la traduzione dalla sceneggiatura alle immagini. Io dico che spesso conosce il film più del regista; quest’ultimo ovviamente ha la sua visione, ma la segretaria di edizione è la persona che ha il maggior controllo sul materiale del film.

Se si tiene in considerazione che all’epoca si girava soprattutto in pellicola, aumenta la difficoltà, perché il rullo – lo châssis – della pellicola ha una durata di 20 minuti al massimo, mentre adesso con il digitale si può girare per anche 2 ore di seguito, permettendo una maggiore agilità nelle riprese. Però, mentre si tende a girare più materiale possibile, magari anche con più macchine da presa contemporaneamente, non ci si interroga su come girarlo. Questo fa apparire il ruolo della segretaria di edizione superfluo, perché si pone meno cura ai ragionamenti sul raccordo. In questa maniera, tuttavia, c’è il rischio che tuttə girino nello stesso modo, cioè senza modo, senza preoccuparsi di quale sia la giusta inquadratura per raccontare un sentimento, per dare il giusto cuore a una scena.
Un regista che mi aveva molto colpita era Silvio Soldini, perché aveva un'idea molto precisa di quale fosse l'inquadratura giusta per raccontare una scena; penso sia ancora uno dei registi italiani più consapevoli rispetto alla macchina da presa. Serve, in questo senso, riprendere consapevolezza del linguaggio filmico.
Tu hai scritto spesso con altre persone, quindi com’è lavorare in gruppi di scrittura?

Direi una bugia se dicessi che non esistono conflitti, incomprensioni, momenti di tensione, di invidia e di fragilità. Spesso capita di avere l'impressione che le proprie idee e il proprio lavoro non siano apprezzati, capiti o di essere inutili e vi assicuro che queste fragilità non passano col tempo, rimangono. Quando però il gruppo di lavoro trova un suo equilibrio, tutte queste dinamiche vengono metabolizzate naturalmente e quando il film è finito non ci si ricorda più se quella cosa l’ha detta unə o l’altrə. Anche perché, quando si lavora insieme, da una cosa apparentemente superflua può nascere un altro pensiero che poi si rielabora: lavorare in collettività diventa un modo di osservarsi vicendevolmente per trovare una lingua comune. È per questo che si lavora quasi sempre con le stesse persone, perché si conoscono le intemperanze, le insofferenze e i gusti dell'altrə e al tempo stesso non si ha paura di esporsi. Non bisogna avere paura del giudizio altrui e, soprattutto, mai censurarsi: non si può sapere cosa può nascere da un’idea all’apparenza semplice.
In più, la propria visione personale è importantissima, anche autori rispettati cercano spesso il confronto con un immaginario diverso per essere stimolati. È sbagliato essere morettiani se si lavora con Nanni Moretti, bellocchiani se si lavora con Marco Bellocchio, perché sarebbe un’imitazione, non si metterebbe a frutto il contributo che si può dare. È uno scambio continuo in cui l’autore deve far proprie le cose che si sono elaborate insieme. Sembra paradossale ma non tutti i bravi registi sanno fare tutto.
Tu frequenti molto i festival e insegni sceneggiatura alla Fondazione Fare Cinema. Quali sono secondo te i ruoli dei festival e delle scuole di cinema?
Io cerco sempre di avere una visione positiva del mondo, quindi potrei sembrare ingenua, ma penso che i festival e le scuole siano sempre delle grandi occasioni di elaborazione, dibattito, pensiero, per sentire che cosa c'è nell’aria e che tipo di storie si vogliono raccontare; sono un momento di scambio per capire lo stato delle cose.
L'anno scorso ho avuto il privilegio di fare parte della Giuria della sezione Orizzonti alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed è stato emozionantissimo, perché ho avuto l’occasione di parlare con registə e attorici da tutto il mondo. Mi ritrovavo a sviluppare dei pensieri e dei ragionamenti sul cinema, cosa che si fa anche quando si scrive, ma in maniera diversa, perché vi è il rischio di teorizzare troppo.

Per quello che riguarda il mio rapporto con l'insegnamento, io credo fermamente - non è un vezzo - che non ho nulla da insegnare. Io posso semplicemente condividere con lə altrə la mia esperienza di lavoro. Per me l'insegnamento è un po' come le botteghe rinascimentali: proviamo a fare insieme un soggetto e a vedere questa storia dove ci porta, così come lo farei nel mio lavoro.
Che consigli daresti allə giovani che vogliono affacciarsi al mondo del cinema?
Io sono privilegiata perché con lə miə alunnə conosco una parte di gioventù di qualità. Penso ci siano tante persone di qualità, tante giovani donne con una grande energia e proprio a loro mi sento di dire che è il momento di passare all’azione, il tempo è ormai maturo. In questo momento, anche grazie agli avanzamenti della tecnologia, si può lavorare e cercare una visibilità anche fuori dal mercato. Oggi si può davvero girare un film con il telefonino. Noto, però, che spesso si appoggiano su modelli produttivi vecchi anche lə ventenni o trentenni. Capisco le difficoltà, come quella della circuitazione, però secondo me si può rompere il sistema. Se non si è visibili con l’ufficialità, bisogna inventarsi gli spazi.

Un esempio scollegato dal cinema - perché l’ispirazione va cercata in tutto - è un movimento di giovani donne che si chiama Amarə che organizza interventi, manifestazioni e attacchinaggio di manifesti con un senso politico e con una storia da raccontare. Allo stesso modo, bisogna riuscire a sfondare il sistema produttivo realizzando delle azioni che rompano e irrompano, senza essere legate ai tempi infiniti del cinema: il meccanismo produttivo classico è di una lentezza che toglie le energie, così prima di arrivare a realizzare un progetto, si è già stufə e in quella cosa non ci si crede più. Dato che in questo momento storico si possono molto facilmente produrre e mettere in circolo delle idee, bisogna mettersi in connessione, inventarsi anche un festival senza soldi. Guardando ai movimenti del femminismo degli anni ’70, delle FEMEN, in Russia e in Francia si facevano delle azioni di rottura che cercavano il contatto col fuori. Noi siamo ormai abituatə a muoverci dentro binari che diventano sempre più stretti, ma bisogna confrontarsi con lə altrə, soprattutto in questo momento storico che per tanti motivi ci ha portatə a rinchiuderci dentro casa.
L’ultimo consiglio è rimanete sempre spettatorici con quello stupore originario, leggete tanto e vedete tanti film. Chiedetevi: io questa cosa la capisco, la vedo, l’apprezzo? È una domanda che non è banale porsi per migliorare la propria scrittura.
f.v.
Se volete approfondire le tematiche che abbiamo trattato in questo articolo, vi consigliamo la visione di questa intervista a Valia Santella realizzata dal collettivo di Napoli Skuñixi all'interno del progetto Il Cinema È Donna.





Ci vorrebbero più persone come Valia nel cinema, soprattutto in Italia!!
Bellissimo