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Figlie dell'ombra: il femminile narrato da Stephen King

Aggiornamento: 15 lug

Categoria: Libreria femminista


Quando, a soli dieci anni, Stephen King trova nella soffitta della zia dei libri di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft, appartenenti al padre che aveva abbandonato la famiglia pochi anni prima, non può immaginare quanto la sua appena nata passione per l’horror sarà in grado di totalizzare la sua vita.

Stephen King al firmacopie di Salem's Lot, Christine la macchina infernale e Cujo, anni Ottanta
Stephen King

Nell’universo kinghiano fatto di creature fantastiche, auto possedute, clown assassini e hotel infestati, gli orrori descritti dall’ormai “Re del brivido” sono spesso molto più reali di quello che si potrebbe pensare e, tra le pagine dei suoi romanzi, emerge una specifica categoria: le personagge, per citare Michela Murgia. Sapientemente tratteggiate da Stephen King, queste ultime ribaltano gli archetipi narrativi classici ribellandosi alla passività che grava da anni sul ruolo della donna nella letteratura di autori uomini, incarnando una resistenza furiosa e, molto spesso, disturbante.

Fin dal principio, la carriera di King è profondamente legata alle donne: è proprio la moglie Tabitha a ripescare - letteralmente - dalla spazzatura il romanzo d’esordio che verrà poi donato al grande pubblico, con una protagonista  destinata a diventare tremendamente iconica: Carrie (1973).


Carrie White (Sissy Spacek in Carrie- lo sguardo di satana, Brian de Palma, 1977)
Carrie White (Sissy Spacek in Carrie- lo sguardo di Satana, Brian de Palma, 1977)

In Monster Theory, testo del 1996 che esplora concetti orrorifici riguardo la civiltà occidentale dal medioevo all’età contemporanea, Jeffrey Jerome Cohen analizza la figura del mostro come “corpo culturale”: non tanto una creatura spaventosa, quanto un’incarnazione fisica dei timori più reconditi delle nostra società, capace di adattarsi inesorabilmente ad ogni epoca e situazione. La tesi di Cohen si applica perfettamente al personaggio di Carrie, la cui fisicità guida l’evoluzione della storia, facendola diventare “mostruosa” dal momento in cui infrange i codici prestabiliti di comportamento femminile.

Non più docile e pura, Carrie rispecchia la bigotta paura del corpo femminile sessuato, desiderante e vendicativo: i suoi “diabolici” poteri telecinetici sembrano manifestarsi proprio con l’arrivo della prima mestruazione; il suo sangue – simbolo di trasformazione – è l’innesco narrativo della sua rabbia. Bullizzata dai suoi coetanei e repressa da una madre fanatica religiosa, Carrie incarna l’archetipo dell’adolescente che rifiuta il ruolo di vittima silenziosa e il suo personaggio finisce per smascherare l'ipocrisia della “normalità” e del conformismo.


"Tra le altre cose, Carrie è uno studio su cosa significhi essere poveri e brutalmente emarginati in America. È un tema su cui King è tornato più e più volte. Lo conosce a menadito. Ci è cresciuto."

Margaret Atwood 


Perfettamente contestualizzata nella violenta crisi politica e sociale degli anni Settanta, l’apocalittica vendetta di Carrie è una metafora chiara: la pubertà diventa una forza destabilizzante, un capovolgimento della narrativa patriarcale della “brava ragazza”. 


Carrie segna per sempre la carriera di King, inaugurando quella che oggi è una delle produzioni letterarie più prolifiche al mondo; tuttavia, l’opera che più di tutte è stata capace di esprimere la sua poetica rimane It (1986), considerato dal pubblico uno dei grandi romanzi americani.

Nel libro troviamo quasi tutti i tropi dello scrittore: protagonista è il "Loser’s Club", 7 ragazzini tra i dodici e i tredici anni che si uniscono per fronteggiare il Male It stesso, la “cosa” – annidato nella cittadina inventata di Derry, nel Maine. Un personaggio che spicca in modo particolare all’interno del gruppo è Beverly Marsh, l’unico membro femminile dei perdenti.

Bev è sicuramente una figura complessa, da raccontare quanto da analizzare: ragazzina vittima degli abusi del padre, anche lei - come Carrie - incompresa dai coetanei e spesso abbandonata a sé stessa; da adulta rimane intrappolata nelle stesse violente dinamiche a causa di un matrimonio alquanto infelice. In It, King ci propone una nuova chiave di lettura per discutere ancora del controllo sul corpo delle giovani donne: Beverly è “mostruosa” in quanto elemento di forte disturbo per i suoi antagonisti, impersonificando una figura pericolosa perché capace di crescere in un contesto ostile e di reagire.


“[Beverly Marsh] è il fuoco attorno al quale “i perdenti” si radunano; non sta solo combattendo contro It, sta combattendo contro la misoginia della comunità di Derry […] e non diventa mai una vittima, ha sempre sotto controllo la situazione: Beverly è una guida per il gruppo.” 


Beverly Marsh (Sophia Lillis in IT pt. 1, Andy Muschietti, 2017)
Beverly Marsh (Sophia Lillis in IT pt. 1, Andy Muschietti, 2017)

Michela Murgia, nella puntata del podcast Morgana dedicata a Stephen King, sottolinea quanto i personaggi femminili dell'autore siano “mostruosi” solo agli occhi di una società che non comprende dove collocarli; Beverly è continuamente posta sotto lo sguardo indiscreto di una città che la rigetta e la rende un outsider. In questa storia, la ragazza è portatrice di una verità scomoda, una sopravvissuta, in grado di ribaltare lo stereotipo della “final girl” che dipinge l’eroina dei film dell’orrore come una ragazza della porta accanto, bella e ingenua. Testimone dell’orrore di It, Bev riesce a captarlo in modo più intenso degli altri: nel romanzo, questo la rende custode di un sapere superiore, di una sensibilità unica che salverà numerose vite.


“Stephen King è stato il primo scrittore capace di raccontare, in modo sistematico, delle personagge che avessero personalità tridimensionali e che non fossero funzionali al racconto di un eroe maschio.”

Michela Murgia


Non si potrebbe chiamare accurata questa analisi del “mostruoso femminile kinghiano” senza menzionare l'orrore fatto a personaggio: Annie Wilkes. L’antagonista di Misery (1987) è forse uno delle creazioni più controverse e allo stesso tempo azzeccate dello scrittore americano; in grado di simboleggiare un terrore profondo, nel quale tutti possiamo ritrovarci: materna, soffocante e ossessiva, rifiuta il cambiamento e reprime la creatività di Paul Sheldon, il protagonista rapito e legato nella sua soffitta.

King riesce a liberare una forza spietata, la parte più irrazionale del suo inconscio; relegata in un'America rurale e, ancora una volta, ignorante, Annie è "mostruosa" in quanto isolata e incapace di relazionarsi con il mondo, risultando quasi un animale ferito che attacca per difendersi quando si sente in trappola.

In Misery, la corporeità dell'antagonista è una presenza asfissiante, la sua femminilità non è desiderabile, ma anzi repellente, ingombrante.


Annie Wilkes (Kathy Bates- nel film Misery 1991) taglia la barab con un affilato rasoio a Paul Sheldon (James Khan)
Annie Wilkes (Kathy Bates in Misery, Rob Reiner, 1991)

Se, come dice Cohen, “il mostro è una mappa dei limiti di una cultura”, Annie Wilkes ne rappresenta un perfetto modello. In lei, l'autore manifesta tutte le sue ansie, con l’obiettivo – a questa conclusione lui stesso arriverà solo molti anni dopo, probabilmente vittima del suo stesso gioco – di sfogare la sua paura di perdere il controllo a causa della dipendenza da sostanze stupefacenti


“Anche considerando che sia questa la metafora alla base del racconto, Annie (la cocaina) vince. Non viene battuta mai, non cede; è lui [Paul] a cambiare, lei rimane onnisciente."

Paola Barbato - dal podcast Kinghiana -Misery

Uno dei punti chiave - confermato dalla Monster Theory di Jeffrey Jerome Cohen - per chi legge e comprende l’operato di Stephen King, è che il Male ritorna sempre, sotto forme diverse, perché simboleggia ciò che vogliamo reprimere. Rileggere oggi queste personagge, con uno sguardo femminista e intersezionale, significa riconoscere – finalmente - il potenziale sovversivo del genere horror. Le “figlie” di King non sono “mostri” perché malvagie, ma perché sfidano ruoli culturali imposti, sono denunce viventi di una cultura che fatica ancora a guardare in faccia il diverso, non tanto il soprannaturale, ma quello che ci circonda ogni giorno.



M.F.

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