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Verso un teatro inclusivo con Marta Cuscunà

Rubrica: Voci d’artistə


Marta Cuscunà è autrice e performer di un teatro visuale che vuole  trasformare la scena in un laboratorio di possibilità, dove l’immaginazione diventa strumento politico per sfidare l’ordine del reale. In un matrimonio perfetto tra teatro di figura e di narrazione, attivismo, scienza ed ecofemminismi, la performer presta voce e corpo a figure spesso escluse o marginalizzate, attraverso l’uso sapiente di pupazzi, creature meccaniche e figure ibride.


Marta Cuscunà e le Clarisse
Marta Cuscunà ne La semplicità ingannata. Fotografia di Alessandro Sala/Cesuralab per Centrale Fies

Qual è il percorso che ti ha portato a sviluppare la visione artistica che hai oggi? 


Ciò che ha cambiato radicalmente il mio rapporto con il teatro e l’arte è stato seguire con mia mamma la stagione di teatro contemporaneo del teatro di Monfalcone, quando ero al liceo. La stagione si chiamava “ContrAZIONI- nuovi percorsi scenici” e, oltre a ospitare i linguaggi del teatro e della danza contemporanei, – invitando per esempio la compagnia Abbondanza Bertoni– aveva numerose proposte di teatro civile, molto schierate con argomenti d’inchiesta: penso a Marco Paolini o al teatro di narrazione di Eugenio Allegri o Lella Costa. Questo tipo di visione mi aveva coinvolta tantissimo, tanto che ho deciso di provare a fare un corso di teatro per adolescenti, offerto in forma gratuita dal comune di Monfalcone, e condotto dalla regista e attrice Luisa Vermiglio. Durante il corso, ho potuto sperimentare delle tecniche di improvvisazione con gli oggetti e scrivere dei testi che riguardassero la mia città. L’imprinting è stato, quindi, poter scrivere, ovvero essere autrice della mia visione e usare il teatro per raccontare il mio vivere nella città. L’incontro con Luisa Vermiglio è stato fondamentale perché ho capito che il teatro potesse essere un lavoro, non solo un hobby. Finito il liceo, quindi, ho provato subito a fare provini per delle accademie di arte drammatica. 

Marta Cuscunà sul palco
Marta Cuscunà in E’ bello vivere liberi! Fotografia di Luigi De Frenza (Arna Meccanica)

Il percorso è stato travagliato: ho provato alla Paolo Grassi di Milano, dove non sono stata presa e poi ho frequentato l’Accademia Nico Pepe di Udine, ma non mi hanno dato il diploma finale, finché ho partecipato a “Prima del teatro- Scuola europea per l’arte dell’attore”, una scuola europea per l’arte dell’attore che si svolge in provincia di Pisa. La particolarità di questa scuola estiva è che vengono mescolati gli allievi con gli insegnanti delle maggiori accademie d’arte drammatica europee. Al provino per accedere ai posti a pagamento per chi non frequentava queste accademie, il direttore della scuola mi consigliò di fare il corso di teatro di figura – invece di quello di teatro cantato, che volevo fare io – perché aveva visto che in scena usavo gli oggetti in modo particolare. Mi diede una borsa di studio, in modo tale che io potessi farli entrambi. Al corso di teatro di figura ho conosciuto Joan Baixas, che è diventato il mio maestro. Un anno dopo, mi ha proposto di andare a Barcellona a lavorare con lui, prendendomi “a bottega”. Il teatro di figura in Italia non è parte dei percorsi accademici “riconosciuti” – mentre ad esempio in Francia, Belgio e Spagna lo è – quindi bisogna sperare che un burattinaio o marionettista ti voglia insegnare i trucchi del mestiere. Poi ho conosciuto José Sanchis Sinisterra, drammaturgo contemporaneo spagnolo, con cui ho cominciato a studiare drammaturgia. Da lì ho iniziato a mescolare la drammaturgia contemporanea alle tecniche di teatro visuale, con l’idea di parlare di argomenti molto politici e schierati, anche con i burattini e con i pupazzi. Un altro degli incontri fondamentali che ho fatto è stato quello con Giuliana Musso, che mi ha introdotto al teatro d’inchiesta, la cui drammaturgia è frutto di una sorta di inchiesta giornalistica che porta anche all’incontro dei testimoni.

Non avendo un diploma riconosciuto e avendo, quindi, sempre cercato delle strade diverse, meno battute, per me è stato fondamentale partecipare al Premio Scenario, perché aveva un impianto che permetteva anche a giovani senza appoggi ed economie di strutturare un progetto e realizzarlo a piccoli passi, oltre che rendere possibile un’ampia visibilità.

Da lì ho conosciuto alcune strutture con cui poi ho collaborato, in particolare Centrale Fies, un centro di arte contemporanea del Trentino-Alto Adige rivolto alla ricerca performativa e ai linguaggi ibridi, che già allora era diretto da una donna, Barbara Boninsegna. Centrale Fies è stato per me un percorso veramente arricchente, che mi ha portata a degli incontri inaspettati: perché la convinzione di Barbara era che condividere uno spazio di co–working con professionalità diverse potesse portare a scambi e idee impreviste. Probabilmente non farei quello che faccio ora se per 10 anni non avessi lavorato a Centrale Fies.


Il tuo lavoro è partito da una ricerca sulle resistenze femminili e si è poi ampliato verso l’ecofemminismo e lo sguardo multispecie: ci racconti questa esigenza di allargare lo sguardo in quella direzione? 


Nei primi due capitoli della trilogia sulle Resistenze femminili avevo affrontato due storie realmente accadute, che avevano portato il pubblico a riconoscersi molto nelle protagoniste, provando amarezza per il fatto che il loro slancio verso il riscatto fosse stato sedato. Già nel terzo capitolo la necessità di cambiamento che avevo sentito era di rendere più esplicito il fatto che il patriarcato fosse un problema che riguardava tutti, non solo le donne. 

Teste di adolescenti
Marta Cuscunà e i ragazzi di Sorry, Boys. Fotografia di Daniele Borghello

Nel terzo spettacolo della trilogia – Sorry, Boys – le protagoniste non ci sono più sulla scena, ci sono tutti gli altri: per costringerci a guardarci allo specchio e rendere manifesto il tema della liberazione dal patriarcato anche dal punto di vista maschile, in modo che questo diventi un discorso comune, collettivo. Approfondendo la ricerca e le letture sul tema – in particolare le teorie di  Donna Haraway – sono arrivata all’antispecismo, che per me è un discorso complesso. Se alcune battaglie femministe mi trovavano perfettamente in sintonia e pronta all’azione, le implicazioni dell’antispecismo, invece, mi mettono in difficoltà: ci sono compagnə molto attivə su questi aspetti, mentre io resto fredda… non riesco a essere vegetariana neanche per una settimana! Quindi, ho deciso di provare a mettermi in discussione, raccontando delle storie che avessero a che fare con questi argomenti e potessero creare delle connessioni con persone che, magari come me, non riuscivano a sentirsi coinvolte.


Quali sono i punti di forza che il teatro vanta per parlare di antispecismo e di scienza? 


Il teatro consente di abitare punti di vista diversi; nei miei spettacoli, la pratica performativa in cui io animo varie creature meccaniche mi permette di infilarmi dentro corpi altri, diversi dal mio, per immaginare delle esistenze che hanno meno possibilità di essere raccontate– restando comunque consapevole del cortocircuito per cui sono sempre io, con la mia visione umana, che immagino le parole di altre specie.


Donna sul palco con creature ibride
Marta Cuscunà e le Camille di Earthbound. Fotografia di Guido Mencari

La cosa che secondo me ha il teatro – ma che condivide con tante arti – è la possibilità di trasformare dei contenuti nozionistici in qualcosa che fa risuonare delle corde emotive o creative che toccandoci, ci arriva vicino. È un modo di trovare delle strade meno dirette per affezionarci a contenuti che altrimenti resterebbero lontani da noi, freddi. 


Nel caso di Corvidae. Sguardi di specie, c’è qualcosa di affascinante e ossimorico nel contrasto tra l’ingegneria sofisticata dei dispositivi che usi negli spettacoli e la tua voce accompagnata dal gesto che li animano sul palco: come lavori per integrare questi due linguaggi? 


La creazione dei corvi è nata insieme alla scenografa Paola Villani e all’assistente alla regia Marco Rogante. La modalità di lavoro che da sempre mettiamo in atto è quella della prototipazione, un po’ inconsueta per il mondo del teatro in Italia, perché di solito la scenografia viene costruita, consegnata il primo giorno di prove e poi non si modifica più. Invece, nel nostro caso, il periodo di prove e di creazione può durare anche fino a tre anni, periodo in cui procediamo per residenze artistiche. Io presento a Paola e a Marco una prima bozza del copione, con una ricerca iconografica; nella residenza successiva, Paola mostra un primo prototipo di scheletro con dei materiali di recupero. Iniziamo a provare i primi movimenti, e a capire come rendere credibile il movimento meccanico, studiando gli equilibri tra il mio corpo e questi altri corpi.


Corvi meccanici
I corvi meccanici di Corvidae. Sguardi di specie alla 24esima Esposizione Internazionale a Triennale Milano, parte della mostra curata da Telmo Pievani “Un viaggio nella biodiversità. Otto stazioni sul pianeta Terra”

I corvi che sono andati in scena – risultato di otto prototipi – hanno uno specifico equilibrio tra attriti, forze e curve dei cavi e a livello meccanico c’è dietro un gran lavoro di tentativi andati male e di sperimentazione di materiali. 


Potresti parlarci di Bucolica, un’esperienza teatrale site specific che – proprio perché un unicum – sarebbe prezioso farci raccontare da te: com’è nato questo progetto e cosa ti rimane a distanza di quasi due anni da quest’esperienza? 


Bucolica è stata una commissione del Piccolo Teatro insieme al Politecnico di Milano, per un grande progetto europeo che ragionava su come erano cambiate le nostre idee di città, di paesaggio e di limite dopo la pandemia. L’indicazione che mi era stata data era quella di creare una performance site specific per il quartiere Corvetto di Milano, che io non conoscevo. In particolare, dovevo realizzare la performance in collaborazione con una comunità che abita o frequenta il quartiere. Il percorso è stato molto interessante, perché Corvetto ha delle caratteristiche peculiari: il confine tra la parte metropolitana della città e la parte rurale è ancora estremamente visibile e vivente. In questo quartiere ci sono moltissimi cortocircuiti sociali che lo rendono un luogo delicato: ha un alto livello di occupazione abusiva di case, un’alta percentuale di abbandono scolastico e una forte presenza di persone tossicodipendenti. Gli esperti del Politecnico mi hanno fatto conoscere alcune associazioni che lavorano nel quartiere con gruppi sociali con criticità. A un certo punto, ho realizzato che mi stavo immettendo in una situazione un po’ rischiosa: io, che vengo da Monfalcone e non ho mai vissuto a Milano, né mai lavorato con comunità a rischio o creato performance site specific, dovevo lavorare in un quartiere difficile per elaborare uno spettacolo su commissione di due istituzioni fra le più prestigiose della città. Quindi sono tornata più vicino alle cose che mi sono più familiari: ho provato a guardare a questo progetto con la lente degli ecofemminismi. Ho chiesto se ci fosse una comunità non umana che abitasse quel quartiere: c’è un gregge che attraversa il quartiere Corvetto due volte l’anno durante la transumanza, a maggio per salire in montagna e a novembre per tornare verso la pianura. Un gregge molto vasto – di 1300 capi – che non comprende soltanto pecore, ma anche capre, asini, mucche nane, cani da guardiania e umani.

 

Bucolica. Paesaggio con fischiatori, pecore e umani

Ho cominciato, quindi, a frequentare il gregge, che in quel periodo stava vivendo il passaggio dal pastore più anziano, Giuseppe, alla figlia Anna, di 22 anni, che stava prendendo le redini di tutta l’attività. Una delle cose che più mi hanno colpito è stato incontrare una ragazza così giovane, iscritta all’università, alla facoltà di Agraria, che era in tutto e per tutto nomade e che costruiva la sua vita in base alle esigenze di altre specie. Lei e suo papà mettevano in atto questo sistema di comunicazione umano-animale, attraverso fischi, trilli, schiocchi e altri suoni codificati, che erano un vero e proprio vocabolario condiviso con il gregge. Da lì mi sono ricordata che in alcuni punti del Pianeta esistono le lingue fischiate, nate in ambito pastorale, in paesaggi particolarmente ostici da attraversare, dove il territorio rende difficile per gli umani parlarsi in presenza. Un cortocircuito pazzesco: un linguaggio messo in pratica dagli umani per comunicare con gli animali, che imita il linguaggio degli uccelli, viene sviluppato ed evoluto per comunicare tra umano e umano. Sono lingue in via d’estinzione, ce n’è soltanto una che è in buona salute: il Silbo Gomero, il linguaggio fischiato di una piccola isola delle Canarie, in cui la comunità che la pratica è riuscita a invertire il processo d’estinzione. Quindi, nel momento in cui le infrastrutture stradali e la telefonia hanno reso molto più facile comunicare anche in paesaggi ostici, la comunità ha riconosciuto il fatto che questa lingua non fosse solo uno strumento, ma fosse parte della loro identità culturale. Sono riusciti a introdurla nei percorsi scolastici e a farla riconoscere come Patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO. L’analogia che speravo di creare con Bucolica era quella di far incontrare il pubblico di Corvetto con due realtà, due gruppi umani che stavano tentando di invertire il processo d’estinzione: da una parte, la comunità della Gomera che ci era effettivamente riuscita, con una lingua fischiata al momento in piena salute; dall’altra, questa ragazza di 22 anni che stava cercando di raccogliere il mestiere del padre. La transumanza si tramanda nella sua famiglia da generazioni, nonostante le normative europee per agricoltura e allevamento, la globalizzazione e le logiche economiche la rendano qualcosa di veramente utopico ormai. Volevo riflettere su cosa può fare una comunità perché l’estinzione – che caratterizza il nostro tempo – non sia soltanto una fine, ma possa diventare un atto politico di speranza.


Nei tuoi spettacoli affronti temi molto complessi e drammatici, ma riesci sempre a inserirci una dose efficace di ironia, rendendola una tua particolare cifra stilistica: come si inserisce la comicità nella scrittura di un tuo spettacolo? 


All’inizio, considerando che sono partita da storie vere, l’ironia era insita nei fatti: il mio compito era soltanto trovare una forma teatrale per restituire questi aspetti delle vicende. Le protagoniste degli avvenimenti realmente accaduti erano state estremamente consapevoli del fatto che un’arma per far crollare il patriarcato era smontarlo attraverso l’ironia, colpendolo nei suoi punti deboli. Questa cosa mi è sembrata molto efficace. Poi, ho amato moltissimo Donna Haraway, penso sia la persona più ironica sulla faccia della Terra e usa moltissimo anche l’immaginazione e i pupazzi. Sento che sul palco l’ironia scardina la diffidenza che un certo tipo di pubblico può avere rispetto a certi argomenti, funzionando come una sorta di bandiera bianca: se ti faccio ridere, forse pensi che non sono una minaccia per te e, quindi, possiamo parlare di argomenti che in altri contesti ti metterebbero sulla difensiva.


Qual è il tuo rapporto con lo spazio teatrale? E con il pubblico? 


Di solito io uso lo spazio teatrale in modo classico. Tuttavia, i miei spettacoli, per l’argomento che trattano, hanno la fortuna di esser presentati anche in altri spazi, come L’ANPI o le scuole. Questa varietà mi permette con facilità confronti e dialoghi

Spettacolo in LIS
Corvidae. Sguardi di specie, con la traduzione in LIS di Sara Pranovi, Elisa Verrando, Luca Falbo, Federica Zecchi. Fotografia di Daniele Borghello

In particolare, la cosa su cui ho lavorato – e sto lavorando – è l’accessibilità. Corvidae, per esempio, ha debuttato nella sua forma accessibile per pubblico sordo con quattro interpreti in Lingua dei Segni Italiana. Ho partecipato a diverse occasioni di studio e formazione tenute da Al. Di. Qua. Artists, la prima associazione di categoria nata in Italia per artistə con disabilità. Offrono un percorso formativo molto interessante, per artistə e programmatorici, sull’estetica dell’accessibilità. Le rare volte in cui in Italia ci sono forme di accessibilità in LIS agli spettacoli, di solito sono posticce, con l’interprete in un angolino in proscenio – per non disturbare la visione degli udenti. Oppure nel caso dell’accessibilità per le persone cieche: spesso nelle audiodescrizioni in cuffia manca una visione poetica per restituire un immaginario artistico attraverso un altro canale sensoriale. Sono questioni quanto mai urgenti che vanno affrontate già nel momento di ideazione di uno spettacolo: per chi lo sto scrivendo? Sono abilista nel mio modo di immaginare uno spettacolo? E dall’altro lato, quanto può essere arricchente e sorprendente a livello artistico pensare all’accessibilità in termini di estetica? 


Nel tuo percorso artistico dai voce a figure femminili spesso rimosse o marginalizzate: che esperienza hai avuto tu come donna nel contesto artistico e teatrale italiano ed europeo? 


Io ho iniziato la mia attività in forma indipendente nel 2009 e da allora, con l’ondata del movimento “Me too”, sicuramente ci sono stati dei cambiamenti positivi molto forti. All’inizio, quando entravo in teatro e mi trovavo quasi sempre ad avere delle squadre tecniche formate esclusivamente da uomini, era più difficile essere riconosciuta come regista

Donna con abito da sposa
La semplicità ingannata. Fotografia di Alessandro Sala/Cesuralab per Centrale Fies

Riconoscevo della diffidenza nei miei confronti– sul fatto che potessi davvero essere competente – oppure della sorpresa nello scoprire che, in effetti, ero preparata. 

Avere Marco Rogante come compagno di lavoro è stato per me utile e salutare. Lui ha avuto un ruolo centrale nel costruire il modo di rapportarsi degli altri con me, perché è una presenza maschile solidale, che collabora con me e Paola in modo paritario e, comunque, riconosce una certa gerarchia di ruoli. In una squadra di lavoro – in una compagnia – quando bisogna prendere una decisione, ci sono pareri diversi, ma la responsabilità della scelta finale è la mia, perché gli spettacoli sono i miei. Il fatto che questa cosa sia riconosciuta e apprezzata, e che non sia un problema per i colleghi uomini con cui lavoro, credo sia stato importante. 

Il mondo del teatro italiano rimane ancora molto patriarcale e maschile. Amleta, un collettivo formato da attrici e registe teatrali, ha contato la presenza femminile nei principali teatri italiani – quelli Nazionali e i TRIC – costituendo una mappatura che confronta le presenze tra registe e registi e tra autrici e autori in questi teatri: c’è un divario impressionante. Il mondo del teatro – che dovrebbe essere il mondo della cultura, quello più sensibile rispetto a certi argomenti – in realtà è intriso di discriminazioni e disuguaglianze. Tanto che il dato più impressionante è che nei Teatri Nazionali e nei TRIC il numero di direttrici artistiche era pari a zero, fino a qualche mese fa, quando sono state nominate le due direttrici di  ERT Emilia-Romagna Teatro


Con i tuoi progetti inviti il pubblico a immaginare il futuro insieme, costruendo veri e propri universi nuovi. Tu, personalmente, come immagini il futuro del teatro? Qual è la direzione che credi – o speri – prenda? 


Stiamo vivendo un momento molto delicato, perché c’è grande mobilitazione – ci sono state delle assemblee nazionali molto partecipate – per ciò che sta succedendo con i bandi ministeriali e le nuove nomine dei direttori artistici. Il governo di destra sta cercando di dare spazio e sostenere un teatro volto all’intrattenimento, con il ritorno al classicismo, in cui il contemporaneo viene, purtroppo, svilito. C’è un fortissimo ricatto rispetto ad alcune tematiche: già solo il fatto di aver presentato la domanda ministeriale utilizzando la “schwa” è diventato motivo per cui delle compagnie sono state escluse dalla richiesta a priori. Ovviamente, uno dei grossi problemi è il precariato; in Italia noi lavoratori e lavoratrici dello spettacolo siamo sempre ricattabili, perché quello che abbiamo è legato a contratti a giornata, quindi la nostra sussistenza è veramente fragile. La cosa che spero è riuscire ad avere – come ad esempio in Francia e in Belgio – l’intermittenza, quindi dei sostegni economici per i quali, anche quando non lavoriamo, abbiamo delle forme di tutela. Mi immagino un periodo di lotta, perché si sta facendo tabula rasa di una sacco di realtà importanti. Il teatro – rispetto alla televisione o ai social – è un angolo che può rimanere ancora un po’ nascosto e sotterraneo, in cui può nascere una rivolta. Speriamo!


a.m.

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