Mi vida después: inscenare la Memoria
- Chiara Tommasi

- 11 nov
- Tempo di lettura: 5 min
Rubrica: Attivismo artistico
Nel panorama teatrale contemporaneo argentino, Mi vida después di Lola Arias, debuttato nel 2009 al Teatro Sarmiento di Buenos Aires, costituisce senza dubbio uno degli esperimenti performativi più significativi degli ultimi anni. Attraverso una modalità radicalmente innovativa che sfida le convenzioni del classico teatro testimoniale, l'opera affronta un tema ancora pulsante nella memoria collettiva argentina: la trasmissione generazionale del trauma del terrorismo di Stato e della dittatura militare.

Sei attorici natə tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta si fanno archeologhə della propria infanzia, ricostruendo la gioventù dei propri genitori attraverso fotografie, lettere, registrazioni audio e vestiti da loro ereditati. La domanda che aleggia sulla scena è tanto semplice quanto vertiginosa: com'era l'Argentina quando ancora non sapevo parlare? Quante versioni esistono di ciò che è successo quando ero così piccolə da non ricordarlo?
Il teatro che si propone di confrontarsi con i traumi del passato deve inevitabilmente fare i conti con limiti intrinseci alla sua natura: non può raggiungere gli effettivi “luoghi della memoria”, si rivolge a un pubblico ristretto, è effimero e privilegia il verosimile alla realtà. Ma proprio come la memoria, è anche mutevole e vivo: entrambi guardano al passato esercitandosi nel presente, rivelando quanto il ricordo sia mediato e finzionale. Mi vida después abita questa tensione: reinterpreta il passato non per commemorarlo, ma per illuminare il futuro.

L’opera si delinea come un evento multimediale che integra coreografia, musica dal vivo e proiezioni video interattive, dove echi brechtiani si alternano a momenti di pura commedia. Essa si muove così nei margini tra il reale e il fittizio, tra documento e invenzione, tra storia nazionale e biografia privata, problematizzando in questo modo la natura stessa della memoria e della sua ereditarietà.
Ripercorrendo le varie tracce disseminate, indossando i vestiti e incarnando la storia dei propri genitori, gli attori diventano le loro controfigure: Blas indossa la tunica paterna per seguire i suoi passi in seminario; Carla ricostruisce le versioni sulla morte di suo padre, guerrigliero dell'ERP (Ejército Revolucionario del Pueblo, organizzazione di ispirazione marxista e guevarista); Liza mette in scena l'esilio dei genitori; Mariano riascolta le cassette dei familiari militanti della Gioventù Peronista; Pablo rievoca la vita del padre impiegato di banca sotto il controllo dei militari; infine Vanina tenta di far luce sul ruolo del padre come ufficiale dei servizi segreti.
La modalità con cui lə giovani attorici si avvicinano al passato dei loro cari rivela molto sulla specificità della memoria generazionale, specialmente quella che segue un trauma profondo come quello lasciato del regime militare di Videla. Non si tratta di una trasmissione diretta e lineare, di un'eredità accettata passivamente; al contrario, potremmo parlare di post-memoria, termine coniato dalla ricercatrice Marianne Hirsch per definire una memoria frammentaria, forgiata da narrazioni precedenti alla nascita e che tuttavia influenzano e agiscono sulle vite delle generazioni successive. Lə figliə che occupano il palcoscenico, infatti, devono calarsi nei panni di detective e archivisti, indagando sui frammenti lasciati da un'epoca che non hanno vissuto ma che lə ha profondamente segnatə.
Arias complica ulteriormente la definizione di Hirsch: non esiste un'unica post-memoria monolitica, ma diverse e plurali post-memorie. I ricordi della figlia di un repressore, come Vanina, non possono essere equiparati a quelli della figlia di un desaparecido o di un esule, come invece Carla e Liza; entrambi, tuttavia, contribuiscono alla scrittura di un'unica, complessa Storia.
Le fotografie familiari diventano la pista privilegiata di questa investigazione. Esse vengono proiettate su uno schermo posto alle spalle degli attori, e in diretta il pubblico assiste alla loro degradazione: i personaggi ci scrivono e disegnano sopra, le stracciano con irriverenza.

Questo trattamento delle immagini è il primo e più evidente sintomo di una profonda differenza generazionale: se le madri di Plaza de Mayo consideravano le fotografie come degli oggetti sacri – l'ultimo simulacro che teneva in vita figli e figlie desaparecidos e l'unica speranza di ricongiungersi, in futuro, con loro – le giovani generazioni le profanano, le rendono proprie, lasciano le tracce del loro passaggio.
Questo atteggiamento non deve essere interpretato come una mancanza di rispetto, bensì come un modo diverso di elaborare il lutto: mostrare nella materialità delle fotografie le ferite che il passato ha inferto.
Ciò che rende Mi vida después particolarmente significativa è il suo rifiuto di ogni determinismo. Se i legami di sangue comportano l'eredità di fisionomie – Arias sfrutta la somiglianza fisica tra padri e figli per creare suggestivi effetti di riflesso attraverso fotografie e video – questa è l'unica eredità inevitabile, il resto può essere riscritto liberamente. Ad incarnare esemplarmente questa possibilità di cambiamento spicca Pablo: il suo albero genealogico include il bisnonno poeta e sostenitore della dittatura, il nonno poliziotto torturatore e la zia militante del MPM – Movimento Peronista Montonero, organizzazione guerrigliera di resistenza – assassinata; tre generazioni che condensano le contraddizioni di una nazione. Eppure Pablo non è nessuna di queste cose, l'unico legame che condivide con i suoi predecessori è la passione per la danza, che inscena di fronte al pubblico.
Essere eredi significa trovarsi di fronte a una doppia responsabilità: dobbiamo accogliere ciò che viene prima di noi pur riservandoci il diritto di reinterpretarlo. Mi vida después incarna questa tensione: lə giovani non rinnegano i genitori, ma li riattualizzano in chiave critica, trasformando l'eredità in remake consapevole.
Ulteriore scelta coraggiosa dell'opera è il rifiuto della solennità. Le situazioni serie – come militanza, rivoluzione, esilio – vengono rappresentate attraverso la lente dell'humor: una scena chaplinesca imita l'addestramento militare degli anni Settanta, mentre l'esilio dei genitori di Liza viene messo in scena con toni da telenovela melodrammatica. Questa ridicolizzazione non è, tuttavia, cinismo, né tantomeno un vile stratagemma di banalizzazione per evitare di prendere posizione e collocarsi in una zona apolitica sicura; al contrario, dimostra una radicale e lucida consapevolezza storica. La memoria della post-dittatura, infatti, può essere utile al lutto soltanto allontanandosi dalla malinconia e dalla mera ricostruzione nostalgica del passato. Non c'è nulla di eroico o grandioso negli anni della dittatura, e per questo anche le rievocazioni sceniche devono rifuggire ogni retorica epica o rivendicativa se vogliono assolvere al ruolo catartico che il teatro, per sua natura, possiede.

Mescolando il sacro e il profano, dunque, si è in grado di restituire tutta la complessità di quel periodo. Un elemento che contribuisce ulteriormente a questa dimensione è sicuramente la compenetrazione di vita pubblica e privata.
Come sostiene Judith Butler, non esiste narrazione dell'Io separata dalle condizioni sociali e storiche della sua emergenza: narrare se stessə significa simultaneamente narrare la storia di un paese in un momento determinato. Per questo in Mi vida después la vita personale e quella nazionale si intrecciano costantemente. “1974. Muore Perón e nasco io”, racconta Vanina. “1976. Si dichiara il golpe militare e un mese dopo nasco io”, informa Carla. Eventi che studiamo oggi sui manuali di storia si intrecciano ad accadimenti assolutamente quotidiani e privati, come il racconto del primo giorno di scuola, di un pessimo taglio di capelli, di una partita di calcio guardata alla televisione. In questo modo si restituisce anche la complessità di vivere un periodo storico di quella portata: la vita non si interrompe quando si instaura una dittatura, lo straordinario convive con l'ordinario, lo plasma e lo stravolge, sì, ma non lo elimina.
L'aspetto più rivoluzionario dell'opera è forse la scelta di mettere in scena figli di poliziotti, di desaparecidos e di persone disinteressate alla politica gli uni accanto agli altri, opponendosi all'idea che esista un'aristocrazia del dolore. L'opera afferma che il terrore ha raggiunto tuttə, ed è dunque di tuttə la responsabilità di preservarne e tramandarne il ricordo, per evitare di reiterarlo. Non esiste una gerarchia del trauma che conceda ad alcuni il monopolio della memoria.
Mi vida después, dunque, vuole insegnare che la memoria non è un monumento da erigere, ma un processo vivo, mutevole, da reinventare continuamente nel presente in modo tale che non si ripeta nel futuro.
c.t.





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