The girl with the needle: l'orrore dietro la maschera
- Francesca Viapiana
- 8 lug
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 13 ago
Disclaimer: l'articolo contiene spoiler!
The girl with the needle è un film di Magnus von Horn del 2025 disponibile su MUBI che racconta le vicende di una giovane operaia nella Copenaghen ostile del primo dopoguerra. Il film, ragionando sulla sofferenza dei corpi nella società, ribalta le aspettative del pubblico e gli rivolta contro ogni tentativo di mascherare la crudeltà.

La protagonista, Karoline, lavora in una fabbrica tessile e non ha notizie di suo marito dalla guerra: di fatto è vedova, ma senza aiuti dello Stato, dato che il corpo dell’uomo non è mai stato ritrovato. La ragazza rischia lo sfratto, ma il suo capo si innamora di lei, la seduce, la vuole aiutare e lei rimane incinta. Nel mentre, suo marito che dava per morto torna con il volto sfregiato dalla guerra. Lei, speranzosa per le sue nuove possibilità di vita, lo rifiuta, ma la madre del suo capo non accetta la loro relazione né il futuro nascituro, licenziandola inoltre dalla fabbrica. Così Karoline è completamente sola e senza aiuti, tranne quello inaspettato di Dagmar, una donna che promette di aiutarla a trovare una casa affidataria per suo figlio, in cambio di lavoro nel suo negozio di dolci.
Il film è basato su una storia realmente accaduta, quella di Dagmar Johanne Amalie Overbye che tra il 1913 e il 1920 uccise quasi 25 figli indesiderati. Seguì uno dei più famosi processi danesi, durante il quale venne condannata e morì a 42 anni in prigione. Il lungometraggio non è un semplice true crime: il fatto di cronaca non è sfruttato in modo sensazionalista, anzi la vicenda è resa profondamente umana raccontando il punto di vista di una delle donne che si sono rivolte a Dagmar. Si potrebbe dire che è un dramma in costume narrato con toni fiabeschi, di quelle fiabe ottocentesche tra Andersen e Dickens, in cui la protagonista affronta infinite disgrazie e l’orrore pervade ogni ambientazione.

Seguiamo Karoline a ogni passo del suo straziante percorso, in cui è progressivamente isolata e senza spazi di autonomia. La protagonista è sempre più spinta ai margini di una società che non solo la sfrutta, ma che la vede come uno scarto da cui non può ricavare nulla. Lei però non è una vittima passiva, continua a lottare e a tentare di imporsi in modi via via meno onesti. Il suo comportamento non è mai condannato, anzi l’ambientazione e il contesto narrato non lasciano dubbi sulla necessità delle sue azioni in una Copenaghen crudele e contagiosa. Rimanere incinta per una donna in un mondo così ostile è una condanna a torture e follia, non stupisce quindi che la protagonista resti aggrappata a Dagmar, l’unica persona che è stata disposta ad accoglierla e ad aiutarla: trova il suo unico rifugio in una persona ai margini che aiuta a sua volta persone marginalizzate. Nel film questione di genere e di classe sono inestricabili: per queste donne la lotta è per la sopravvivenza. La madre del capo di Karoline, con cui ha avuto una relazione, la licenzia, la rifiuta e tratta lei e il bambino di cui è incinta come qualcosa così orrorifico e al di fuori di ciò che è ‘giusto’ da non volersene curare, da allontanarlo dalla vista e gettarlo via.

Allo stesso modo i reduci di guerra, come Peter, il marito di Karoline, sono dei rifiuti sociali. Specialmente quelli tornati sfregiati e con traumi psichici, sono costretti a rappresentare un corpo culturale deformato, deviato e mostruoso. Il loro spazio è quello del circo dei freaks, dove vengono spettacolarizzati e sfruttati commercialmente. Le persone ‘normali’ guardano quelle che sono ridotte ad essere ‘creature’ sbagliate, imperfette e inadeguate alla società, confinate nello spazio circense. La distanza creata dallo spettacolo enfatizza la divisione tra queste persone e definisce come imperante e superiore lo sguardo del pubblico. Le tensioni della società si sfogano nella ridicolizzazione del corpo ai margini, nel diverso che si fa intrattenimento per i corpi conformi. Questo per mantenere un’unità e un’uniformità sociale che si valorizza riducendo le differenze a patologie, attraverso processi di normalizzazione: la maschera che Peter utilizza per coprirsi lo sfregio facciale è un dispositivo di questo tipo. Quasi a creare un parallelismo, il film ci mostra come, nonostante tutto, è in queste comunità che le persone come Peter trovano accoglienza e uno spazio, nello stesso modo in cui Karoline trova un rifugio in Dagmar.
Jeffrey Jerome Cohen in Monster Theory, del 1996, analizza la figura del mostro come “corpo culturale” che incarna fisicamente i timori più reconditi della nostra società, mettendo in luce ciò che vorremmo nascondere e purgare. La figura di Dagmar è questo: la mostruosità riportata alla coscienza, la necessaria quanto implacabile uscita dai binari del comportamento femminile. Dagmar alla fine del film diviene mostro, ma l’epilogo non ci fa dimenticare come prima per la protagonista lei fosse l’unico rifugio tanto cercato. Karoline in quel rifugio ci annega e instaura un rapporto contorto e simbiotico con Dagmar, ma al di fuori il mondo è ancora più soffocante.

Non è un film dell’orrore, ma sull’orrore e su come vogliamo mettere una maschera al mondo per ricoprire la crudeltà sottesa al reale. The girl with the needle è un film che vuole perforare la superficie dell’apparenza per affrontare il fatto che anche nel subirlo, siamo partecipi all’orrore. Proprio nell’orrore più becero e nelle mostruosità il film arriva all’umanità più profonda e viscerale. La sequenza di apertura ne è un manifesto: su uno sfondo nero dei volti si contorcono dal dolore e si mischiano, attraverso la sovrimpressione e il morphing, deformando i connotati personali che non sono più distinguibili tra di loro. La contrapposizione e l’accumulo sistematico di primi piani sui volti confondono le singole identità, deformando le distinzioni e creando un corpo collettivo informe che supera ogni binarismo. In questo senso il film tende a ricordare la poetica di Carl T. Dreyer, in particolare nel suo capolavoro La passione di Giovanna d’Arco del 1928, che gioca con l’idea che Gilles Deleuze elaborerà in seguito delle immagini affettive, che si presentano principalmente nei primi piani sui volti. Sono delle immagini la cui temporalità non è narrativa o logica, ma è materiale: toccano in termini tattili lo spettatore, lo muovono, parlano al suo sistema nervoso e generano in lui delle vibrazioni, grazie alla loro abilità di penetrare nella realtà delle cose, nella sua epidermide.

Il film dialoga con Dreyer e con altri grandi maestri del cinema nordico, come Ingmar Bergman, nell’utilizzo del bianco e nero per ricercare una crudeltà e una crudezza che, se da una parte sacrifica il realismo dell’ambientazione, dall’altra esalta il realismo dei segni profondi dei volti dei personaggi, così come il marcato chiaroscuro degli ambienti. Il bianco e nero non è una semplice scelta di collocazione cronologica, ma contribuisce a costruire un’atmosfera tanto sospesa e fiabesca, quanto crudele. I temi e la colonna sonora sperimentale superano le distanze temporali della vicenda per colpire direttamente al petto il pubblico di oggi, attraverso ciò che di più umano esiste: la sofferenza nella sua crudeltà più profonda e onesta.
f.v.
Brava Francesca! Che profondità di analisi.