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L’altra metà della musica: perché le donne restano ai margini dell’industria

Rubrica: attivismo artistico


La disparità di genere nel music business non è una distorsione: è la norma. Le donne abitano l’industria, ma raramente la guidano. Le donne ci sono, ma la loro presenza scivola ai margini: riconosciute quando serve, ignorate quando contano. Il talento non manca, il riconoscimento sì. E la retribuzione, spesso, segue la stessa logica: minima, accessoria, negoziabile. La scena rimane saldamente maschile, e le classifiche lo confermano, i palchi dei festival lo ribadiscono, i roster delle etichette lo amplificano. Un mercato che continua a considerare l’uomo il soggetto legittimo della musica e la donna presenza eccezionale. 


A delineare la reale portata della questione intervengono i numeri, numeri che quando riguardano la vita e il lavoro di donne possono risultare sorprendenti. Nell’industria discografica italiana lo spazio per le donne esiste, ma è delimitato, circoscritto, quasi vigilato. Una ricerca effettuata nel 2023 rileva che le autrici rappresentano meno del 13%, le produttrici non superano il 3%, le artiste soliste nella musica dal vivo sono il 15,6% e le band con almeno una donna in formazione il 9,4%. Il restante 75% della scena musicale è occupato dagli uomini. 

Equaly, nata nel 2021, è la prima realtà italiana che monitora la parità di genere nel music business, raccogliendo e rendendo visibile ciò che per troppo tempo è rimasto invisibile. Fondata da sette professioniste, si ispira al femminismo intersezionale e mira a decostruire stereotipi di genere, creare consapevolezza, offrire formazione continua, modelli positivi e networking e dare visibilità a donne e minoranze di genere che stanno facendo o potranno fare la differenza nell’industria musicale.


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Ornella Vanoni alle prove generali del Festival dei Due Mondi a Spoleto (1959)

Ma perché nella discografia la visibilità delle artiste rimane nettamente inferiore a quella dei colleghi uomini, con classifiche e palinsesti dominati da voci e narrazioni prevalentemente maschili? Il mercato sembra poco incline a riconoscere alle donne un ruolo creativo – nella scrittura, nella produzione, negli arrangiamenti – che tradizionalmente sembra appartenere agli uomini, relegandole invece al ruolo di interpreti. Una conseguenza diretta è la tendenza all’autocensura e all’omologazione, fenomeni che impoveriscono l’offerta artistica e sfuggono spesso all’attenzione del pubblico.

La canzone d’autore illustra bene questa dinamica: per decenni le donne sono state riconosciute soprattutto come interpreti, mentre l’autorialità femminile rimaneva marginalizzata o ignorata. Perfino figure iconiche come Ornella Vanoni sono state percepite quasi esclusivamente come interpreti, nonostante i loro lavori originali e significativi da autrici. In passato, proporre i propri brani era più arduo per le donne: non rientravano nei “canoni del successo”, e il potere decisionale era concentrato nelle mani degli uomini. Anche quando il talento emergeva in maniera evidente, la narrazione tendeva a ridimensionarlo. Carmen Consoli, autrice straordinaria, è spesso etichettata semplicemente “cantantessa”, come se la scrittura fosse per le donne un’attività accessoria e non il centro della propria espressione artistica. 

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Linda Nochlin – Why have there been no great women artists? (1971)

Alle spalle di questi schemi si cela un meccanismo antico, costruito su secoli di esclusione sistematica delle donne. Già nel 1971 Linda Nochlin, nel saggio “Perché non ci sono state grandi artiste?”, dimostrava che la marginalizzazione del talento femminile non derivasse da una presunta mancanza di “genio”, ma da barriere strutturali: percorsi formativi preclusi, modelli educativi costruiti su misura per gli uomini, criteri di successo calibrati per escludere. Le dinamiche che Nochlin osservava nella storia dell’arte riemergono oggi nella musica: stessa logica, nuove forme. Le negoziazione dell’autorialità, la subordinazione dell’immagine alla scrittura, la fatica del riconoscimento non sono anomalie, ma l’eredità di un sistema che per secoli ha reso il talento femminile invisibile. 

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Emma Nolde in concerto a Bergamo (2025)

Se allora le barriere strutturali impedivano alle donne di accedere all’arte, oggi il compito delle cantautrici non è meno complesso, e continua a tradursi nella necessità di ritagliarsi visibilità e riconoscimento in un panorama ancora permeato da logiche maschili. Negli ultimi anni sembra che qualcosa si stia muovendo: nuove cantautrici come Emma Nolde, Anna Castiglia, Lamante e Giulia Mei stanno ridefinendo la scena, avvicinando per la prima volta la presenza femminile a una possibile parità numerica. Ma l’equilibrio è ancora assai fragile, minacciato da bias antichi e da uno specifico e iper contemporaneo nodo cruciale: la centralità dell’immagine. La bellezza e l’aspetto fisico sono tanto, direi troppo impattanti e la bella presenza resta un requisito implicito, ma agisce in entrambe le direzioni: se un’artista è troppo bella, allora non viene presa sul serio, è poco credibile; se non lo è abbastanza, può essere impeccabile musicalmente, ma difficilmente troverà spazio. 

La dittatura dell’estetica pesa più che sugli uomini. Le artiste vengono giudicate per il corpo prima che per la scrittura, per l’outfit prima che per la visione. Quando lo stile è scelta espressiva diventa linguaggio; quando è imposto dal mercato, si trasforma in gabbia. Chiaramente questa ossessione per l’immagine non vive da sola, ma è l’ingranaggio apparentemente innocuo di un meccanismo molto più ampio. Quando l’aspetto fisico decide chi può parlare, chi può salire sul palco, chi merita ascolto, l’estetica diventa strumento di potere. Diventa un dispositivo disciplinare che accompagna le artiste lungo tutta la loro traiettoria professionale, condizionando ciò che possono fare, chiedere e pretendere. È una violenza silenziosa, quasi impercettibile, normalizzata, ma capace di segnare ogni fase della carriera femminile - dalla visibilità alle opportunità, dai compensi al riconoscimento. Una cornice che limita la libertà creativa e rafforza l’idea che, per una donna, l’apparire debba sempre venire prima dell’essere. 


Riconoscere la violenza è complesso, soprattutto quando non assume forme fisiche. La più diffusa – quella psicologica – è anche la più elusiva, resa ancora meno decifrabile da un settore in cui i confini fra lavoro, relazione, “favore” e opportunità restano pericolosamente sfumati. 

Quanto alla violenza economica, il 61% delle professioniste percepisce di essere retribuita meno degli uomini. Nel music business la violenza economica verso le donne è una realtà strutturale, spesso silenziata. Warner Music UK registra un gender pay gap medio del 37,7% ( 36,7% nel 2021), Universal Music UK del 25,6% (31% nel 2021), Sony Music Entertainment UK del 20% (27,9% nel 2021). È un quadro che rivela quanto profondamente l’essere donna continui a incidere sul riconoscimento economico del lavoro. 


La ricerca Donne Mu-De: diseguaglianze di genere nel rapporto tra donne, musica e denaro condotta da Alessandra Micalizzi - psicologa e dottoressa di ricerca in comunicazione e nuove tecnologie - e presentata a Women in Music 2024, fotografa un settore in cui la qualità del lavoro femminile viene sistematicamente svalutata. 

Nel campione analizzato, con 105 rispondenti in prevalenza under 45, emergono dinamiche ricorrenti: la tendenza a ridurre la portata delle competenze femminili, la difficoltà a riconoscere le professioniste come interlocutrici autorevoli nella negoziazione dei compensi, e il costante tentativo di spostare l’attenzione dal valore al “favore”, dalla professionalità all’“opportunità”.


La ricerca Equaly conferma lo stesso schema: la violenza economica si manifesta in forme sottili ma pervasive, come la proposta di sostituire il pagamento con formule di baratto, l’invito ad accontentarsi della “visibilità” o il riferimento al “piacere” dell’esperienza come se questo potesse annullare la natura lavorativa della prestazione. Il fatto stesso che siano stati raccolti solo 105 questionari, diventa un dato significativo: indica scarso interesse o scarsa disponibilità a parlare di denaro e, forse, una consapevolezza ancora debole rispetto alla necessità di condividere e analizzare questa dimensione professionale. 

Alla domanda sul perché sia così difficile negoziare, molte risposte convergono su un punto: il peso dell’essere donna. “Una donna deve sempre dimostrare di essere un’eccellenza prima di ricevere il riconoscimento base”; “non vengo percepita come una professionista, ma come una bambina che gioca con gli attrezzi del papà”. Sono frasi che condensano le narrative dominanti, fondate su due assi principali: la reputazione, più fragile e costantemente messa alla prova, e la competenza, spesso contestata nonostante percorsi formativi articolati e qualificanti. 

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Janis Joplin al Festival di Woodstock (1969)

Kim Gordon osserva come la nostra cultura continui a ostacolare la libertà delle donne, perché fa paura. Quelle che osano vengono evitate o considerate pazze; le cantanti che spingono troppo oltre i confini, spesso non durano a lungo. Sono comete, saette, sbornie: Billie Holiday, Janis Joplin, Betty Davis, Amy Winehouse sono alcuni esempi. Ma spostare il confine significa anche esporre le sfaccettature meno desiderabili di sé.

Janis Joplin incarnò questo paradosso: un’esistenza precaria e solitaria, una ventenne degli anni Sessanta che sfidava un ambiente ostile e un’intera società che proponeva come unica via l’adattamento ai ruoli tradizionali. Janis fu un esercito invasore che conquistò il rock’n’roll, diventando il prototipo della “ragazza di nessuno”, liberatoria e dolorosa insieme. 


La disparità di genere nel music business ha senza dubbio registrato progressi, ma resta lungi dall’essere colmata: la musica continua a riflettere strutture di potere consolidate e gerarchie radicate. Cresce, tuttavia, la consapevolezza: le artiste dispongono oggi di strumenti, reti e alleanze in grado di farsi spazio, rivendicare il proprio ruolo creativo e trasformare l’eccezione in norma. La storia insegna che la libertà e il riconoscimento non si conquistano mai da soli, ma vanno costruiti, sostenuti e difesi collettivamente, dal coraggio delle comete di ieri alle cantautrici di oggi. L’esperienza dimostra che forza, volontà e dedizione da sole non sono sufficienti: occorre creare opportunità, creare reti di sostegno reciproco e collaborare per accelerare il cambiamento. Come evidenzia Federica Pezzoni, in Musicarpia, fare rete è cruciale, ed è per questo che ha promosso nel tempo diverse iniziative come l’archivio di cantautrici emergenti e il Manifesto per una musica femminista. Allo stesso modo, Micalizzi, sottolinea la necessità di una prospettiva collettiva: “Nel tentativo di costruire faticosamente il proprio percorso, si agisce individualmente a discapito del progetto comune: se riuscissimo a ragionare in termini collettivi, almeno finché non c’è questa inversione di rotta, ci aiuteremmo di più”.


Naturalmente la strada verso una vera e propria parità nel music business non passa solo dall’impegno delle artiste: richiede una trasformazione culturale e strutturale, una revisione dei criteri di valore, delle pratiche di selezione e dei meccanismi che storicamente hanno privilegiato un genere rispetto all’altro. Significa creare un ambiente in cui il talento venga riconosciuto a prescindere dal corpo, dall’immagine o dal genere, dove le opportunità nascano dal merito e non dagli stereotipi, e in cui l’industria stessa assuma la responsabilità di sostenere il cambiamento e di ascoltare tutte le voci.


a.r.


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