Uno su Tre: il gender gap nel sistema moda
- Barbara Brutto
- 2 giorni fa
- Tempo di lettura: 4 min
Il 2024, estremamente turbolento per il mondo della moda, è stato il cosiddetto ‘anno del valzer delle poltrone’, caratterizzato da cambi improvvisi o a lungo predetti di uno dei ruoli più ambiti per i fashion designer: il direttore creativo. Ma quello che subito si nota nella confusione generata dai comunicati stampa delle maison, è la scelta di CD (creative director) che sono quasi esclusivamente uomini bianchi. Il punto fondamentale non è mettere in dubbio il loro talento o il loro merito - sicuramente avvantaggiato dall’accesso a un'educazione che nel settore fashion è ancora indubbiamente proibitiva ed elitaria - ma domandarsi perché le donne non ricoprono posizioni ai vertici della moda nel nuovo millennio.
Secondo il comunicato stampa del PwC Italia: Donne e Moda: il Barometro 2024 - promosso in collaborazione con Il Foglio della Moda - in Italia, nel 2023, le donne hanno occupato meno di una posizione apicale su tre negli organi societari. L’analisi, che visiona le 105 aziende associate a CNMI (Camera Nazionale della Moda Italiana), ha evidenziato un lieve aumento della presenza femminile, di quasi tre punti dal 2020 al 2023, raggiungendo il 30,9%. Ma questo non è sufficiente a colmare lo squilibrio radicato, anzi, rappresenta la cartina tornasole di un sistema che vede ai vertici un consolidato potere maschile-patricarle.
Eppure, la scelta di un direttore creativo uomo è storicamente recente: a gettare le basi del mondo della moda sono state decine di donne; per un Christian Dior che stringeva le sue clienti in corpetti e gonne, c’erano una Coco Chanel, una Madame Vionnet e una Madame Grès che le liberavano.
Ma cosa ha portato al passaggio dalla quasi totale presenza di designer donne alla loro quasi totale assenza? Basti pensare che tra i direttori creativi delle maison del gruppo Kering, fino al dicembre scorso, quando Louise Trotter ha preso il posto di Blazy da Bottega Veneta, tutti i direttori creativi erano uomini bianchi, evidente sintomo non solo di un constatato gender gap, ma anche di un intersectional gap radicato.
Analogamente, LVMH -l’altro super conglomerato francese - ha solo quattro donne sui quattordici designer delle maison che possiede: Sarah Burton da Givenchy, Silvia Venturini Fendi da Fendi, Maria Grazia Chiuri per Dior donna e Camille Miceli da Pucci.
Estremamente disequilibrato se si pensa che nella maggior parte delle scuole di moda italiane la percentuale delle studentesse è maggiore rispetto a quella degli studenti: allo Iulm di Milano - nel corso triennale di Moda e industrie creative - le ragazze dell’anno 2023/2024 sono il 91,1 % dei frequentanti; alla Naba di Milano, le studentesse sono 1245 e gli studenti 323. Non è chiaro, quindi, il motivo per cui una materia principalmente studiata dalle donne, crei dei direttori creativi uomini.
Se la storia della moda è costellata di nomi femminili che hanno saputo cambiare le regole del gioco e gli uffici stile sono formati principalmente da donne di talento, perché oggi, proprio loro, trovano difficoltà a sedersi sulla poltrona all’apice della piramide?
In un articolo di Vanessa Friedman, direttrice moda del New York Times, questa domanda è stata posta a diversi attori del settore, tra cui Alice Bouleau, capa del settore creativo di Sterling International, azienda che lavora con le maison di moda per trovare profili più adatti al loro:
“Circa il settanta per cento, o almeno i due terzi, dei design director (il ruolo appena sotto quello di direttore creativo) nelle maggiori maison, è rappresentato da uomini bianchi. E non importa quanto sia variegata la lista dei candidati, gli amministratori delegati sceglieranno sempre qualcuno sulla base della propria cultura e figlia dei loro pregiudizi. Rimango spesso scioccata di fronte a certe conversazioni che intrattengo con gli amministratori delegati nelle quali parliamo di candidate donne e mi chiedono ‘Credi che siano pronte per questo passo?’. È una domanda che ho sentito molto raramente quando si parla di un candidato uomo, e spesso di candidati uomini che hanno quindici anni di meno della donna in questione”.
A fatica Veronica Leoni è riuscita a ottenere il ruolo di direttrice creativa di Calvin Klein, dopo anni di lavoro come consulente del brand The Row. Come lei sono tantissimi i nomi di altre personalità creative che vengono inserite nella lista dei papabili candidati, ma che spesso non sono realmente considerati perché se a prendere la decisione è un uomo bianco, la scelta ricadrà su un suo simile. Si avrà un effettivo cambiamento quando le nomine delle CD donne non saranno più simboliche e occasionali, come un tappeto sotto il quale nascondere un sistema che in realtà le discrimina.
In un articolo di Vogue Business, Halide Alaoz, la chief product officer di Ralph Lauren, riguardo la difficoltà delle donne di farsi strada agli apici del settore moda, del quale loro stesse in realtà sono spina dorsale, ha affermato:
“I pregiudizi inconsci hanno storicamente creato squilibri di genere nel settore. Gli uomini vengono spesso promossi in base al loro potenziale, mentre le donne in base alle loro prestazioni. Questo squilibrio crea un ambiente molto limitante”.
Con questa affermazione, in realtà, si apre un altro punto fondamentale per l’analisi del fashion gender gap, quello riguardante il divario salariale: secondo uno studio del PwC, in Italia, le dipendenti dei principali brand di moda guadagnando mediamente 5,5% in meno degli uomini e in Europa serviranno cinquant'anni per colmare il divario retributivo di genere.
Questo evidenzia l'urgente necessità di un chiaro ripasso della storia della moda e di tutte le sue protagoniste: dalle più conosciute come Coco Chanel, Elsa Schiaparelli alle meno note come Madame Vionnet, Germana Marucelli e Rosa Genoni, fino ad arrivare alle contemporanee, Miuccia Prada e Rei Kawakubo (Comme des Garçon).
Ricordando così, che la moda, per natura, ha bisogno di quell' inclusione che negli ultimi anni le è stata brutalmente negata.
b.b.
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