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L’idea futurista da cui nacque la TuTa

Aggiornamento: 9 set

Il 17 giugno 1920 sul quotidiano fiorentino la Nazione uscì un inserto che presentava l'ambizioso progetto di un artista futurista. Si trattava di un cartamodello che spiegava passo per passo come realizzare un capo d'abbigliamento innovativo, genderless, più semplicemente futurista: la TuTa

A firmare il progetto l’artista e designer fiorentino Ernesto Michahelles, in arte Thayaht, insieme al fratello Ruggero Alfredo, detto Ram. Thayaht era un uomo eclettico e innovativo, amante della sperimentazione e delle linee semplici e geometriche, tanto da improntare proprio su questa linearità il suo primo prototipo di Tuta.


L’esperienza nel campo della moda di Thayaht inizia dalla collaborazione con la stilista Madame Vionnet, punto di riferimento della moda parigina di inizio ‘900. Nel suo atelier l’artista lavorò come consulente, disegnando il logo della maison e portando su carta i progetti degli abiti di Vionnet, sia come cartamodelli sia come illustrazioni. L’atelier di Vionnet fu una scuola importantissima per l’artista che imparò a padroneggiare il cartamodello e grazie a questa sua conoscenza riuscì a progettare  quello della Tuta nel 1919.

Il cartamodello venne pubblicato sulla Nazione l’anno successivo, insieme alle seguenti diciture di Thayaht:


  1. Tuta la stoffa viene utilizzata senza alcuno scarto, quindi c’è economia di tessuto.

  2. È una combinazione tuta d’un pezzo con il minimo di cuciture, quindi c’è economia di fattura.

  3. Veste tuta la persona e con soli sette bottoni e una semplice cintura è pronta, quindi c’è economia di tempo.

  4. In poche settimane tuta la gente indosserà la tuta, che offre il massimo comfort e libertà di movimento, dando un senso di rinnovamento con un effettivo risparmio di energia. 


La T che manca crea il gioco tra la parola ‘tuta’ e ‘tutta’ ed è metaforicamente presente nella forma dell’abito che rimanda al Tau, lettera dell’alfabeto greco, simbolo dell’assoluto e della perfezione della creazione. La Tuta infatti è la sintesi di una silhouette a T, come l’iniziale dello stesso Thayaht il quale proietta in questa creazione la sua idea moderna e futurista di uomo vitruviano. 

Già Giacomo Balla, il pittore del movimento futurista, nel 1913 aveva affermato:

Vogliamo abiti futuristi confortanti, pratici a mettere e a togliere, abiti che abbiano forme e colori dinamici, aggressivi, urtanti, volitivi, violenti, volanti…

Il colore blu, il più usato nelle tute, simboleggiava il cielo, ma anche il volo e la fede nel progresso, incarnando perfettamente il simbolo e la trasposizione esatta del sentimento futurista nel campo della moda.


Cartamodello Tuta
Cartamodello della Tuta

Il capo, pensato inizialmente nel 1919 come la soluzione perfetta per l’abbigliamento del primo dopoguerra, era molto semplice e minimale. La sua innovazione e la genialità dei suoi creatori stava nel fatto che chiunque in possesso del cartamodello poteva ricavare la tuta da un rettangolo di stoffa di cotone blu, dalle dimensioni di 4,5 x 0.70 metri. 

Questo la rendeva  un capo funzionale ma soprattutto accessibile a tuttə, basandosi sull’idea di creare un indumento unico, che riducesse al minimo lo spreco di tessuto e rendesse effettivamente inutile la moda. Tanto che questo viene simbolicamente evocato anche nell’etimologia della parola Tuta che deriva dall' abbreviazione e dall'adattamento di tout- de-meme, in italiano ‘tutti uguali’.


La Tuta di Thayaht era chiaramente ispirata e pensata per il mondo  del lavoro, in contrapposizione con l’abbigliamento borghese fatto da giacche e cravatte, e voleva rappresentare una soluzione per le difficoltà economiche in cui tergiversava l’Europa nel periodo post-bellico. 

La Tuta era un capo unisex, adatta a qualsisia età, stagione e adatta sia al giorno, sia alla sera: è sia workwear sia elegante. Queste due anime del capo erano rivoluzionarie e dirompenti per l’epoca, tanto da porlo, con le sue linee semplici e minimali, in forte contrasto con il costume del tempo fatto di perfezione, eleganza e eccessivi orpelli. 



All’epoca, non ebbe subito il successo sperato, trattandosi di un indumento estremamente avanguardistico e legato ad un concetto, quello dell’unisex, che si svilupperà solo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, grazie alle lotte femministe. Nonostante questo, il capo divenne un must-have della classe operaia - le cosiddette tute blu - incarnando il simbolo per eccellenza del movimento antiborghese. 

È interessante notare che, rivendicando razionalità e standardizzazione, Thayaht pensava di aver inventato qualcosa di definitivo e atemporale, mentre si può dire che la sua creazione sia rimasta allo stadio “prototipo” e che sia semmai rientrata a far parte del meccanismo della moda, invece di combatterlo. Quello che il designer offriva, però, era una soluzione estremamente contemporanea e rivoluzionaria per l’epoca, che toccava, oltre al genderless, temi quali la moda circolare e il zero-waste. L’artista, infatti, aveva immaginato una visione innovativa e funzionale di un capo d’abbigliamento, che venne spogliato del suo significante e reso un semplice oggetto funzionale alla protezione del corpo, ma privo di valore estetico e di espressione personale, concetto fondante e fondamentale della moda.

Tuttavia si è trattato, quindi, come per altre generose produzioni artistiche anche nel caso della Tuta, del fallimento dell’ utopia di chi l’ha inventata. 

La rivisitazione del capo è proceduta però sino ad oggi in maniera incessante ma indirizzata verso significati diversi da quello originario. Fu specialmente dagli anni ‘80 e ‘90, che i designer, come Armani, Margiela e Yamamoto, renterpetrarono la tuta, rendendola un capo unisex, essenziale, ma alla moda.

b.b.

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