Maria Lai: slegarsi dall'individualità per Legarsi alla montagna.
- Vanessa li Bergolis
- 4 ott
- Tempo di lettura: 5 min
Rubrica: Attivismo artistico
Il mondo post industriale si erge in tutto il suo splendore sul carattere belligerante della paura. Qui, nella voragine, scintillano i picconi che la scavano e questa improvvisa privazione dello spazio diventa il cratere in cui ognuno inaridisce il proprio orticello. Come potrebbe essere altrimenti se quei luoghi diventano la traccia di un individuale periferia dai confini che ne designano in modo ben definito le mura innalzate a proteggere l’indissolubilità dell’Io? Ed è esattamente quella viscerale paura dell’altro fuori di metafora a slegare le persone invece di unirle. A ripensarci, forse, la paura si annoda fino a costituire un inestricabile matassa che non lascia margine ad alcuna soggettività nell’illusione di sentire la nostra e al contempo nella speranza che questa non subisca un’invasione.
Quando parliamo di periferia ad esempio, l’immaginario collettivo ci propone l’idea di caseggiati e luoghi progressisti, allodole di una società avanzata che pensa alla povera gente, che non lascia indietro la marmaglia, che se ne occupa in virtù dell’assai caro welfare state. Dimentichiamo tuttavia quanto tale espansione metropolitana allontani le classi popolari, il popolo. Pensateci, non vi è mai capitato di sentire timore all’idea di avvicinarsi ad un quartiere considerato malfamato? Di cosa si ha paura per la precisione? O sarebbe meglio dire di chi? Proprio delle persone che lo vivono; loro rappresentano la minaccia alla nostra sicurezza, non sono di certo persone come noi, sono sicuramente anzitutto più carnalmente violente! Poveri, poveri sfortunati! Gentaglia che ignora la paura del malcapitato nelle loro grinfie!
Tutto ciò che è al margine e che sfugge anche alla nostra visione – pensate che buffo – periferica è per antonomasia una minaccia. L’individuo contemporaneo è fobico delle altre individualità. La periferia non è un luogo lontano rispetto a, bensì un luogo che esiste a prescindere da ed è peraltro parte costitutiva e integrante dei luoghi, fisici e mentali, esteriori ed interiori, nonostante determinati schemi difensivi e protettivi ci colgano in fallacia e le destre vogliano far credere che esistano contesti marginalizzabili, grazie a l'escamotage della retorica populista. Tale marginalità viene esasperata dalla società fintanto che i migranti al supermercato intimidiscono, le soggettività queer sono una minaccia, le donne sono un turbamento, e ancora, chiaramente il mercante vuole sempre e ad ogni costo imbrogliarti, dei compagni di classe non ci si può fidare, dai colleghi all’università bisogna solo desiderare gli appunti, gli amici prima o poi ti deluderanno, la dirimpettaia è una spiona e così via… L’individualità fobica è abbandonata a se stessa, e come sorprendersi se perfino la cultura la spaventa quando le chiede di uscire dai propri confini? Del resto l’arte può superarli, affrontarli infinite volte e nei modi più sconvolgenti.
Proprio contro questo senso di abbandono che reca con sé l’isolamento fobico – aggravato dai pregiudizi accresciuti anche dall’appartenenza geografica, come nel caso del Meridione d’Italia–; si concentrò per un suo lavoro Maria Lai (1919-2013), artista contemporanea di origini sarde. Nacque ad Ulassai e visse gran parte della sua vita a Roma, tuttavia fu sorprendente il modo in cui attraverso una delle sue opere più significative riuscì a far emergere con audace autenticità gli spiriti e i sentimenti degli ulassesi.

Siamo a cavallo degli anni ’80 quando il sindaco del borgo, Antioco Podda, chiese a Maria Lai di realizzare un monumento ai caduti per il paese, affinché un’opera ultimata da un’artista – all’epoca – affermata come lei, restituisse notorietà a quei luoghi. Fu così che il giorno 8 settembre 1981 prese forma Legarsi alla montagna. Ma prima, partiamo dalle caratteristiche paesaggistiche di Ulassai: il paese è capeggiato da una montagna, la quale all’epoca rischiava sempre di franare enormi massi di pietra minacciando le case, gli abitanti, insomma le loro vite, le loro esistenze. Questo clima di terrore misto a fascinazione nei confronti del monte fu teatro per la proliferazione di numerose leggende narrate di generazione in generazione, che nel corso del tempo sono diventate cultura orale e dunque parte costitutiva del tessuto di credenze del luogo. Tra queste leggende, un racconto particolarmente emblematico vede una bambina mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori, dopo aver portato al termine la sua missione, a un certo punto scoppia il temporale così, il gruppo insieme al gregge decide di rifugiarsi in una grossa grotta. Dal riparo, questa bambina vede svolazzare tra le maglie del vento, fuori nel cielo, un nastro celeste e ammaliata decide di corrervi dietro uscendo dal luogo protettore e sfidando il temporale. Proprio in quel momento la grotta frana e si chiude sugli occhi del gregge e dei pastori rimasti al suo interno. Destino diverso spetta, invece, alla bambina, che grazie alla sua meraviglia nei confronti del nastro azzurro ebbe salva la vita.
Forte di questa vitalità culturale impossibile da ignorare, Maria Lai rifiutò di fare un monumento ai caduti; il rispetto che nutriva nei confronti degli abitanti di Ulassai era talmente profondo, che non avrebbe mai accolto la pretesa di rappresentare tutti loro attraverso un monumento che celebrasse esclusivamente la morte:
“Io dovevo mettere gli elementi: sapevo che l’opera d’arte deve possedere una coscienza storica, quindi i segni del nostro tempo e questa leggenda mi suggeriva un’analogia tra Ulassai, minacciato da frane, e il mondo, minacciato da guerre; il nastro celeste si trasformò, invece, in perfetta metafora dell’arte, che non accorre a risolvere problemi pratici, non promette niente, ma indica direzioni di salvezza a chi è capace di stupore. Era questa la giusta metafora per un’azione da far nascere sulla cultura del paese. Decisi che sarebbe stato l’intero paese a realizzare l’intervento: proporsi di legarci tutti, casa per casa, con un nastro celeste, come quando ci si prende per mano per sconfiggere la paura, e poi di portare il nastro sulla montagna per chiederle pace.”
In questo modo nacque la prima opera in Italia che pone la comunità al centro, vera e propria forma di arte relazionale. Consideriamo infatti che, dopo un primo momento di smarrimento cittadino, la proposta fu accolta favorevolmente dagli ulassesi, che pure non avevano sempre buoni rapporti di vicinato; per tale ragione, decisero di non legarsi con il nastro a casaccio. I ventisei chilometri di nastro celeste esprimevano attraverso un linguaggio semiologico il significato che si celava dietro precisi simboli: il nastro passava dritto dove i rancori tra vicini non si erano risolti, era annodato laddove i rapporti con il vicinato si ritenevano pacifici, si poteva intravedere un fiocco in virtù dell’amicizia che li legava, oppure; trovare appesi i pani delle feste quando vi era un profondo coinvolgimento affettivo. Infine, il nastro dal paese venne legato al Monte Gedili da scalatori professionisti mentre gli abitanti restano ai piedi della montagna per assistere alla scena, quasi come se fossero in venerazione, connettendosi con il massiccio in una sorta di tregua mistica.
Il paese che si lega alla montagna, le persone che si legano tra di loro; quest’opera diventa un emozionante allegoria dell’importanza della coesione popolare. Il paese diventa infatti il riflesso di un contesto più grande, non solo ulassesi, ma abitanti della terra. Le persone escono dall’isolamento delle loro case incuriositi del mondo e dell’altro; la diffidenza passata, che non viene certamente messa da parte, può – cosa più importante – essere rappresentata traendo un nuovo senso: quello della consapevolezza. Connettersi con le proprie frustrazioni dando loro una forma attraverso l’ausilio del nastro, diventa catarsi, poiché l’avere coscienza che l’altro esiste significa sentire che nella sua diversità l’altro sta vivendo una vita, anch’essa costernata da antipatici eventi e ancora da nodi, fiocchi e pani. Catartica è la vicinanza dell’altra persona, che insegna a non esacerbare a tutti i costi il conflitto ma a guardare in quel nastro che lega più che il segno di una bestialità paurosa quello della vividezza celeste delle creature che abitano con noi: il nastro azzurro ad Ulassai ha permesso alla matassa di svolgersi.
VlB











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