Il fumetto come reportage: la Palestina occupata di Joe Sacco
- Doha Zahrane
- 1 lug
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 11 lug
Rubrica: Attivismo artistico
Nel contesto attuale, segnato da crisi e guerre sempre più visibili, l’informazione gioca un ruolo fondamentale. Le guerre ci attraversano lo schermo, ci raggiungono in tempo reale, ma vengono spesso narrate da prospettive parziali, filtrate da interessi politici ed economici. Se da un lato l’informazione ha il potere di sensibilizzare e creare consapevolezza, dall’altro può anche distorcere, semplificare, silenziare. È il caso della realtà palestinese: dimenticata, minimizzata e raccontata con distacco dai media, come se appartenesse ad un altro mondo. Diventa quindi sempre più importante interrogarsi non solo su cosa viene raccontato, ma su chi ha la possibilità di raccontarlo.

È qui che l’opera Palestina. Una nazione occupata, pubblicata nel 1996, acquista una potenza speciale. Joe Sacco, giornalista e fumettista maltese naturalizzato statunitense - noto per essere uno dei pionieri del graphic journalism - tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 ha trascorso due mesi in Israele e nei Territori Occupati, svolgendo una serie di interviste meticolose ai rifugiati del luogo. Immergendosi nella loro quotidianità, è riuscito poi, attraverso le sue parole accompagnate da illustrazioni, a descrivere questa realtà complessa, offrendo al lettore la possibilità di conoscere, comprendere e avvicinarsi alle condizioni vissute dai palestinesi. Attraverso questa testimonianza ci è permesso comprendere la storia di un popolo storicamente oppresso, tema che spesso viene omesso dai media che riducono la questione israelo-palestinese agli ultimi anni, ignorandone le radici profonde e le responsabilità storiche.
L’autore, infatti, è riuscito a catturare e riportare l'umanità di coloro che vivono ogni giorno le conseguenze del conflitto, offrendo uno sguardo intimo e diretto sulle sofferenze e le speranze dei palestinesi. Sacco, intervistando i rifugiati, pone domande e si apre all’ascolto, senza esprimere opinioni;
“è una presenza che ascolta, che guarda, a volte con scetticismo, altre con stanchezza, ma la maggior parte delle volte con atteggiamento partecipativo e curioso” Edward Said
Sacco si fa portavoce di una comunità nascosta e silenziata, scorgendo nella forza della rappresentazione il passo per la via dell’autoaffermazione e della liberazione. Durante le interviste è attento alla calorosa accoglienza rivoltagli dai cittadini palestinesi, che non iniziano mai a raccontarsi senza prima offrire del tè al fumettista. La maggior parte degli intervistati si aprono al giornalista in maniera propositiva, nella speranza che queste interviste possano provocare un qualche cambiamento. Il loro desiderio di essere visti e rappresentati si manifesta attraverso le richieste di scattare fotografie e la speranza, più volte ribadita, di finire sulle pagine di importanti giornali internazionali. Altri, invece, si mostrano più diffidenti: non si fidano dell’autore, ricordano come in passato siano già passati in molti, ponendo domande e promettendo visibilità, assicurando che, una volta resa nota al mondo la loro condizione, qualcosa sarebbe cambiato.

L'autore sottolinea come molti palestinesi si interroghino sull’effettiva consapevolezza dell’Occidente riguardo alla loro situazione, esprimendo in particolare una profonda sfiducia nei confronti degli Stati Uniti, spesso considerati complici della loro sofferenza. “Gli americani possono anche essere informati di questi problemi, ma stanno dalla parte di chi ha i soldi, e i palestinesi non ne hanno [...] in America, dirigenti e padroni sono tutti ebrei”, afferma una donna palestinese che, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, denuncia apertamente la complicità economica e politica del Paese.
Le parole dei rifugiati diventano così lo strumento principale per mostrare il sistema di oppressione a cui sono sottoposti: dalle demolizioni delle abitazioni, alla distruzione sistematica delle risorse, fino alla condizione disumana delle carceri. È attraverso i racconti, spesso crudi e privi di filtri, degli arabi incontrati nei campi profughi - come quello di Balata - che l’autore ricostruisce la realtà quotidiana vissuta nei territori occupati, dando spazio alle voci di chi raramente viene ascoltato.
Uno dei temi su cui si è prestata particolare attenzione nell’opera riguarda gli insediamenti coloniali. Sacco mette in evidenza l’ideologia promossa dal primo ministro Shamir, “incoraggiare la popolazione squattrinata a uscire dai confini”, secondo cui gli israeliani avevano pieno diritto di costruire in Cisgiordania. Tuttavia, questo "diritto" si scontra con la presenza della popolazione palestinese, a cui viene sistematicamente negato il permesso di edificare, costringendola a costruire in modo abusivo, provocando demolizioni continue.
Nel corso dei due mesi trascorsi nei Territori Occupati, Joe Sacco entra in contatto con diversi aspetti della condizione palestinese, a partire dal campo profughi di Balata fino ad arrivare a Gaza, dove la situazione appare ancora più drammatica. “Se qui ti sembra brutto, prova ad andare a Gaza” (Sacco 1993: trad. it. 6), è la frase che gli era stata rivolta e che torna a riecheggiare nei suoi pensieri quando raggiunge quella che viene comunemente definita una "prigione a cielo aperto".

Uno degli elementi fondamentali del fumetto è l’umanità che Sacco riesce a trasmettere: le interviste, le espressioni dei volti, i silenzi. Il lettore entra in connessione profonda con le persone incontrate, ne percepisce la paura, la tristezza e, in molti casi, la rabbia. Una rabbia soprattutto giovanile, nata da un senso di impotenza e dall’assenza di un futuro che, oggi più che mai, sembra essere stato loro completamente negato. Le parole di un giovane arabo con cui il giornalista dialoga mostrano chiaramente questo sentimento: per lui, l’intifada è “un modo per riprendermi il mio paese, per liberarlo dall'occupazione, per far sì che il mondo intero conosca la nostra situazione”.

Attraverso il reportage a fumetti Sacco è riuscito a riportare una testimonianza diversa da quella proposta dai media tradizionali. Palestina. Una nazione occupata rappresenta una letteratura alternativa, capace di documentare una realtà complessa e dolorosa, mettendo in luce le contraddizioni di una società che si definisce democratica, ma allo stesso tempo perpetua pratiche che negano la dignità umana.
Il graphic journal si configura così come un efficace strumento letterario e giornalistico, in grado di offrire un’informazione da una prospettiva diversa. Sacco racconta la realtà palestinese da un punto di vista esterno, ponendosi come testimone attento: non giudica, non impone la propria visione, ma ascolta, osserva, dà spazio alle voci degli altri. In questo modo si erge a portavoce di una comunità troppo spesso dimenticata.
È ormai necessario cercare di accedere a un'informazione il più possibile ampia e diversificata. Il monopolio dei media rappresenta un grande limite: sempre più realtà vengono sistematicamente silenziate o dimenticate. Non si possono lasciare interi popoli privi della possibilità di raccontarsi, costretti a esistere solo attraverso narrazioni filtrate da interessi economici e politici. Per questo è fondamentale cercare fonti alternative, prospettive differenti, offerte da opere di autori indipendenti, come Palestina. Una nazione occupata, che si propongono di dare spazio agli oppressi e ai non rappresentati.
d.z.





Da leggere! Palestina libera sempre
Interessante, acuto, motivante. Brava