Alice Rohrwacher: dopo il cinema cosa c’è?
- Marta Frugoni
- 2 dic 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 4 dic 2024

Una delle domande che ogni artista si porta dentro per tutta la vita è sicuramente cosa lasceranno le sue opere su questo mondo, anche una volta che ləi stessə non ci sarà più. L’eredità culturale è da secoli uno dei grandi segni dell’uomo: di questo la regista Alice Rohrwacher è ben conscia e il suo lavoro guarda sapientemente al passato quanto al futuro.
In Dopo il cinema. Le domande di una regista, intervistata dal critico cinematografico Goffredo Fofi, per lei amico e mentore, l'autrice parla del filo conduttore della sua poetica: il tempo. Un continuo guardare contemporaneamente al percorso già tracciato in precedenza da altri e a quello che stiamo invece percorrendo noi.
“Spesso faccio un passo indietro e mi guardo non solo nella mia vita, ma nella vita del tempo, e penso che la mia generazione, se ha un valore, è quello di essere una cerniera. Siamo gli ultimi che hanno sperimentato la vita novecentesca: siamo cresciuti nel Novecento e siamo maturati nel nuovo millennio.”
In questo limbo, Rohrwacher cerca di ritagliarsi uno spazio nuovo, in parte composto dall’eredità del neorealismo, soprattutto per quanto riguarda le tematiche principali delle sue opere, in parte colorato da quest’aria di novità, quasi magica, tipica della sua personale visione. La natura del suo fare cinema va cercata nei paesini, nelle osterie, nelle cascine, rielaborandone i racconti e le fiabe popolari, con l’obiettivo di intrecciare una volta per tutte l’"alto" e il "basso” eternamente divisi dagli intellettuali italiani. La regista ritiene che il suo amore per l’arte a tutto tondo essendo nato con la letteratura, la aiuti poi nel cinema a far dialogare dei mondi che normalmente non comunicano.
A Fofi, l’autrice specifica che proprio l’uso di quest’immaginario folcloristico, che le viene spesso criticato, è in realtà fondamentale per esprime la sua arte, è un vedere l’invisibile dietro le cose: ciò le permette di continuare a dialogare con il pubblico, di cui lei fa orgogliosamente parte, anche dopo la fine della pellicola: una conversazione che punta - come ogni autore spera - all’immortalità.

“Fiabesco, come femminile, è una di quelle parole ridotte in brandelli dall’automatismo di certi aggettivi che vi si riferiscono, che in realtà non hanno legame con la parola in sé. Dico fiabesco e subito immaginiamo castelli, draghi e cavalli alati al galoppo. Ma la fiaba è legata profondamente al reale, almeno la fiaba italiana: è fatta da mele che sanguinano, contadini che rinchiudono il vento in una scatola, corpi che si spezzano e ragazze che rimangono incinte per un incauto raggio di sole che entra dalla finestra.”
L’autrice spinge il pubblico a “leggere la realtà”, ad andare oltre quello che c’è sullo schermo, a guardare cosa ci circonda e a interrogarsi su come lo percepiamo.
“Facendo aderire il destino di quei personaggi a una fiaba, siamo portati a vederne la grazia e lo splendore, siamo portati a cercare, dietro ai loro vestiti logori e strappati, lo scintillare di un antico manto principesco che è ancora lì, da qualche parte, nascosto dietro la realtà.”
Il suo compito è quasi pedagogico, in un mondo come il nostro che ci forza ad essere autodidatti per quanto riguarda la nostra stessa sopravvivenza.
“Siamo umani in un’eredità di gesti e simboli che accadono fuori da noi. Le nostre parole, i nostri pensieri, i nostri gesti non nascono in noi, ma sono un’eredità che abitiamo per il periodo della nostra vita, sono tracce di un destino più grande.”

m.f.
Rohrwacher è veramente una grande regista! Analisi molto interessante
bellissima riflessione tratta da un bellissimo libro.