Musiche alchemiche con Glomarì
- Penelope Contardi

- 15 lug
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 25 lug
Glomarì è un’artista e cantautrice fidentina che con le sue performance conduce lo spettatore in spazi tanto nuovi quanto conosciuti. La sua musica è progettata per evocare memorie inabissate attraverso testi poetici e delicati, accompagnati da sonorità ricercate e innovative.

Qual è stato il tuo percorso personale e formativo?
Il mio percorso è stato un po’ anomalo, dal momento che la musica è entrata nella mia vita piuttosto tardi. Sin da bambina amavo molto la poesia, tant’è che quando la maestra chiedeva a noi bimbi cosa avremmo voluto fare da grandi io rispondevo sicura: “la poetessa”. Già da piccina mi caratterizzava un sentire melanconico, ero molto nostalgica: percepivo di avere una “fiamma”, ma non è stato semplice interpretarla, ci sono voluti tanti anni. Arrivata la scelta dell’università, nonostante mi sentissi attratta da forme d'arte pure ed espressive, su consiglio dei miei genitori optai per la facoltà di Architettura in quanto percorso più concreto e con maggiori sbocchi lavorativi, ma comunque legato all’armonia e all’estetica. A cuor leggero sarei andata più verso il mondo del cinema, però sono felice della mia scelta. Architettura è una disciplina che insegna a creare ponti (soprattutto simbolici) e a sviluppare l’intelligenza analogica. Progettare significa conoscere il luogo in cui si opera, sviluppare una sensibilità verso il genius loci, inserirsi in maniera armoniosa in un contesto cercando di far dialogare diverse realtà: è un approccio filosofico, estetico, tecnico, letterario e artistico. L’architettura mi ha aiutata ad ampliare le mie prospettive e a pensare alla progettualità sotto diversi punti di vista... è così che scrivo e compongo canzoni, progettando in modo alternativo, in un luogo interiore anziché fisico.
Quando ti sei avvicinata alla musica e come hai scelto questa forma di espressione?
È avvenuto un po’ per caso, mi è stato regalato un ukulele e ho scoperto di essere portata per la musicalità naturalmente. La musica è stata una chiamata molto forte che ha stravolto i miei piani, passando velocemente dall’essere uno svago fino a diventare in un certo senso la mia missione esistenziale. Amo la musica perché sento che può veicolare messaggi molto forti: il canto in sé è la forma d’arte che connette al divino nel modo più viscerale e spontaneo in quanto nato come preghiera. Penso che oggi ci sia molto più bisogno di questo tipo di connessione di quanto si creda.
Raccontaci il tuo processo creativo, come scrivi e componi la tua musica?
L’atto creativo è per me un momento molto introspettivo. Spesso quando arriva l’ispirazione ricreo la notte, chiudo tutto e illumino con una luce fioca: è un inabissarsi. L’ispirazione arriva da tantissime cose, anche da energie che vanno oltre la mia memoria. Mi sento connessa ad una sorta di miracolo interiore, mi metto in ascolto e cerco di essere più ricettiva possibile per poi cercare di connettere questa energia alla mia esperienza personale. Questo sentire spesso si materializza in primo luogo nell’idea di titolo, che funge da paesaggio sul quale costruire tutto il resto. A questo punto, con lo strumento in mano, cerco di trovare per tentativi l’accordo che si connette a questa energia. Inizia infatti la ricerca della vibrazione giusta che, una volta trovata, a sua volta ispira la melodia su cui ricamare il testo.
Come definiresti il tuo primo progetto e come si è evoluta la tua musica nel tempo?
Il mio modo di fare musica e arte si è molto evoluto negli anni. Il mio primo album A debita vicinanza, è stata una vera e propria scuola, diciamo che ho "imparato" così la musica, creandola con amore e totale libertà, aiutata da musicisti incontrati durante un workshop a Cremona. Oggi sento di avere molte più consapevolezze sulle tematiche trattate, sulle modalità di scrittura e sulle soluzioni di arrangiamento. Leggendola da un punto di vista alchemico, il primo album ha rappresentato l’incontro con l’ombra, il conoscermi oltre lo specchio. La canzone A suo modo danza, da questo punto di vista, è la più rappresentativa dell’album: canta la libertà della foglia che nasce nel momento in cui si stacca dal ramo (dalla certezza solida) e inizia a librarsi nell’aria spinta dal vento, come se la morte fosse qualcosa che in realtà aiuta a danzare, mentre stare attaccati a delle convinzioni precludesse la libertà.
La ricerca di nuove sonorità che caratterizza le mie ultime creazioni nasce dal sodalizio artistico (e non solo) con il compositore e sound designer Remo De Vico. Grazie alla sua sensibilità raffinata, ho avuto modo di sperimentare una gamma di suoni e soluzioni elettroniche per me del tutto nuove che si fondono magnificamente con ciò che nasce semplicemente dalla mia voce e dalla mia chitarra.
A cosa stai lavorando attualmente? Puoi darci qualche anticipazione sul tuo prossimo album?
Il prossimo album, che dovrebbe uscire nel primo trimestre del 2026, è frutto di tanti studi e letture. Sono partita da Jodorowsky, dalla sua idea di psicomagia e di cura dell'anima attraverso la teatralizzazione del male (Il teatro dell’anima, titolo della seconda canzone dell’album, racconta proprio di questo).
Nell’album sono confluiti molti studi di Jung e dei suoi allievi, focalizzati sull’idea di frattura tra conscio e inconscio che caratterizza la società contemporanea e sulle conseguenze che tale frattura genera. L’equilibrio tra luce ed ombra è stato compromesso e ciò che concerne l’aspetto più recondito della nostra psiche è stato ridotto a mera superstizione. L’inconscio, non potendosi più esprimere “alla luce del sole” si è ingegnato prendendosi lo spazio patologico: Jodorowsky definisce la malattia come l’unico palcoscenico rimasto all'inconscio per poter dire la sua, è una chiamata di aiuto.
L’album gioca un po’ sul tentativo di recuperare memorie archetipiche dimenticate ma ancora sepolte nella memoria collettiva, come l’idea di labirinto o di monte sacro, l’obiettivo è stato quello di ridare spazio all’inconscio: ho cercato di edificare una sorta di “teatro della memoria”. I testi possono sembrare ermetici e paradossali, ma è giusto che sia così, perché l’inconscio parla la lingua misteriosa dei sogni e non è possibile comunicarci razionalmente.
L’aspetto visuale è molto curato nella tua arte, come realizzi i tuoi video?
Realizzare video musicali per me significa molto, considero l’aspetto visivo come parte integrante della musica; spesso mi occupo di quasi tutti gli aspetti del processo creativo e realizzativo, è un’ardua impresa ma che penso valga la pena intraprendere. Il progetto video più complesso che abbia mai realizzato è la trilogia di Inaccadimenti che mette in scena le canzoni A suo modo danza, Mostarda e Liberà (tutte e tre parte del primo album). I protagonisti dei tre video sono personaggi fragili ed emarginati che cercano riscatto nell’arte, in quanto tali mi rappresentano, li considero espressione della mia alterità. L’atmosfera si ispira all’estetica del realismo magico, in grado di cogliere le energie sottese al reale che è magico di per sè.
La signora protagonista di A suo modo danza è una donna sola che per sopravvivere al silenzio tra le pareti della sua grande casa vuota si è inventata un compagno di vita singolare: un ventilatore. Il secondo protagonista, quello di Mostarda, è un artista che, non riuscendo a vivere della propria arte, è costretto a creare solo di notte, una volta terminata la dura routine lavorativa. Tutto procede regolarmente fino a quando, improvvisamente, iniziano a materializzarsi meteoriti e navicelle spaziali inquietanti nei suoi paesaggi bucolici (delle vere e proprie minacce dal "pianeta Inconscio"). Liberà è un flashback, mostra i personaggi dei primi due video nel periodo della loro infanzia, in un giorno in cui decidono di cimentarsi nella costruzione di una macchina volante.
Il tema della trilogia è, infatti, quello di un volo che non si compie, ma che per me rappresenta il senso dell’arte: qualcosa di inutile, che non deve per forza arrivare alla produzione di un oggetto finito… è il tentativo di volo ciò che conta, lo scavo continuo, e non il volo in sé.
Com’è lavorare nel mondo musicale oggi da artista indipendente?
È molto complesso muoversi nel mondo musicale: è difficile capire a chi rivolgersi, per cosa e come, soprattutto per un progetto come il mio, collaterale e interdisciplinare, non troppo adatto a grandi palchi. Il mio primo album è uscito con un’etichetta piuttosto importante ma non sono stata particolarmente soddisfatta dell’esperienza, poca attenzioni ad artisti “minori” come me e molto distacco dal punto di vista umano. Per il mio prossimo progetto non credo uscirò con un’etichetta, ma sono felice di aver trovato Nuda, una società di servizi per artisti gestita da due ragazzi molto simpatici e propositivi, Antonio e Lorenzo, che si occuperanno della distribuzione tramite Idol.
Comunque, è complesso pensare alla musica come ad un lavoro con cui mantenersi, soprattutto perché credo che il sistema egemone capitalista stia cercando di limitare i portatori di energie creatrici e vitali, la sua utopia è la distopia di un mondo di uomini-macchina che pensano solo a produrre profitto, non bellezza. Proprio per questo, per me la gratuità è un valore importante, dal momento che il denaro porta a snaturare qualsiasi cosa. Nonostante l’avversità del sistema, mi ritengo una persona molto fortunata perché grazie alla musica ho avuto l’onore di incontrare persone che appassionandosi alla mia visione hanno deciso di aiutarmi a concretizzarla: penso a Remo De Vico, alle sorelle Chiara Trancossi e Irene Trancossi (scenografa e fotografa), a Stefano La Via (musicologo fuori dalle righe), a Francesca Scigliuzzo (violoncellista e ricercatrice), a Matteo Macaluso e Giacomo Vidoni (videomakers) e a mia mamma (la mam-manager e "trovarobe" più bizzarra di sempre). Ho visto pochissimi soldi nella mia carriera artistica ma posso dire di aver collezionato momenti magici che hanno un valore incommensurabile, soprattutto perché condivisi.
Ti è capitato più volte di esibirti in teatro, qual è il tuo rapporto con questo luogo magico?
Il teatro è lo spazio in cui mi sento più a mio agio, è un luogo simbolico dove tutto è possibile e dove si può ripartire da zero, prendere consapevolezza della propria condizione, della propria alterità, e soprattutto in cui poter sviluppare la capacità immaginativa.
In un mondo così rigido, categorico, ripetitivo la musica e il teatro per me rappresentano rifugi dall’esperienza straziante dell’esistere, luoghi dove poter creare architetture di senso in un mondo sempre più insensato, la cui insensatezza ci viene spacciata a forza per normalità inconfutabile. C’è bisogno di più teatro perché c’è bisogno di più immaginazione: di questi tempi ne abbiamo così poca da non riuscire a visualizzare nient’altro che la fine del mondo come soluzione possibile ai mali che lo affliggono.
Il mio sogno è quello di trasformare il prossimo album in un vero e proprio spettacolo teatrale, ho mille idee in testa. Questo perché nella mia musica c’è sempre una linea narrativa che lega le canzoni, un racconto, seppur a tratti enigmatico e misterioso: il passaggio da una canzone all’altra, il loro ordine, servono ad accompagnare il pubblico in un mondo "altro", il mio.
Credo che il compito di ogni artista, come quello dei profeti, sia cercare di risvegliare gli spettatori, ricordargli di aver dimenticato qualcosa di importante, come il fatto che un altro mondo è possibile, se lo si vuole davvero. Non bisogna aspettarsi il cambiamento da fuori, bisogna cercare di essere il cambiamento e il teatro è un’ottima scuola per fare questo.
p.c.














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