Giulietta Masina: l'artista oltre la musa
- Chiara Maremmani
- 21 ott
- Tempo di lettura: 6 min

Vincitrice di un Golden Globe, quattro Nastri d’Argento e un David di Donatello, Giulietta Masina è stata una delle più importanti attrici del Secondo Dopoguerra italiano, fino ad essere definita da Charlie Chaplin “l’attrice che stimo di più”. Tuttavia, la sua immagine di moglie accanto ad un artista come Federico Fellini ha fatto sì che fosse lasciato in secondo piano il suo talento come attrice e la sua importanza nel panorama cinematografico del periodo, fino ad essere relegata dagli studiosi all’odioso ruolo di musa ispiratrice, etichettata pure nelle biografie a lei dedicate semplicemente come “attrice e sposa di Federico Fellini”. Eppure, Masina non ebbe un ruolo ancillare rispetto ad un genio del cinema, fu una figura che contribuì alla costruzione dei suoi stessi personaggi e alla ridefinizione del ruolo delle donne nel settore attoriale del periodo.

Nata in provincia di Bologna nel 1921 ma trasferitasi a Roma all’età di quattro anni, Giulia Anna Masina (chiamata Giulietta da Fellini) mostra la sua passione per il mondo della recitazione destreggiandosi nel teatro sin dalla giovane età. Tuttavia, il suo avvicinamento definitivo avviene quando nel 1942, mentre studia Lettere Moderne all’Università La Sapienza, accetta un impiego presso la EIAR. Il personaggio di Pallina, a cui dava la voce, era nato nel giornale umoristico Marc’Aurelio e dalla mente di un giovane Federico Fellini, con cui si sposerà nel 1943. La carriera di Masina nel mondo del cinema inizia con un ruolo di comparsa in Paisà di Rossellini nel 1946 e successivamente in Luci di varietà (1951) di Lattuada, per la prima volta anche sotto la regia di Fellini. Il secondo film del marito che la vedrà in scena sarà Sceicco bianco (1952), dove il regista sceglie per lei il ruolo della prostituta allegra ed ingenua di Cabiria, che diverrà un personaggio ben più strutturato in Le notti di Cabiria (1957), sempre interpretato da Masina diversi anni dopo.

“Avevo cominciato con una prostituta e da quel momento, se i produttori mi offrivano qualcosa, erano solo prostitute”, afferma l’attrice. Era ciò che in America veniva definito type casting, affidare personaggi simili a ciò per cui il pubblico conosce una determinata attrice o un determinato attore. Masina si ritrovò incastrata nella dicotomia classica dei ruoli offerti alle donne: quella tra santa e seduttrice di cui Gelsomina (la protagonista de La strada, 1954) e Cabiria sono i due esempi più pregnanti.
Inoltre, in un contesto come quello degli anni Cinquanta e Sessanta di messa in discussione dei valori tradizionali, cattolici e borghesi, Masina rappresenta una donna rassicurante per la visione del periodo: di successo, ma che non metteva in ombra il marito, semmai ne esaltava il genio. Divenne quindi vittima di un doppio movimento di identificazione, alimentato sia dal mondo divistico e pubblico che dai personaggi da lei interpretati, che rendeva difficile capire dove finisse Masina-personaggio e iniziasse Masina-persona.
Dopotutto, i suoi personaggi più celebri nacquero da disegni di Fellini che avevano già il volto della donna e alcuni di questi divennero poi pubblici, contribuendo ad alimentare questa sovrapposizione totale tra persona e personaggio. Eppure, Masina prendeva parte attivamente al lavoro di Fellini e alla costruzione dei famosi personaggi: tra i due vi era uno scambio e un ascolto costante, professionale prima che intimo. Nonostante questo, i giornali italiani del periodo portarono avanti una visione patriarcale in cui Masina divenne semplicemente “la moglie del cinema italiano”.

Questo era il prezzo che l’attrice dovette pagare per trovare il suo spazio nel campo della recitazione femminile italiana, un luogo in cui tra l’altro lei stessa sentiva di avere “quell’aria di persona che con il cinema c’entrava sì e no”. La maggior parte delle attrici dell’epoca arrivava dal mondo della televisione e dai concorsi di bellezza: le cosiddette “maggiorate”, che dovevano il loro successo alle proprie caratteristiche fisiche. D’altra parte, il cinema era costruito per piacere all’occhio dello spettatore maschio, che preferiva la bellezza e l’abbondanza dei corpi alla professionalità. Uscita dal teatro, Masina dovette trovare il suo mezzo caratteristico per poter spiccare in un contesto che non prediligeva le sue doti. E ci riuscì.
L’attrice era infatti ben conscia dei mezzi a sua disposizione e della tradizione attoriale a cui si rifaceva. Come viene osservato da Mariapia Comand, il corpo dell’attrice è utilizzato da lei stessa secondo un modello più moderno, che si discosta dalle pratiche patriarcali in cui vengono messe in risalto le forme fisiche. L’utilizzo del corpo è in funzione di una recitazione di tipo clownesco che utilizza una semantica ben precisa e antichissima per rappresentare un personaggio in modo stilizzato. (Si consiglia, a questo proposito, l’articolo di Mariapia Comand «Risponde Giulietta Masina»: discorso sessuale, corpo attoriale, contesto mediale attraverso la rubrica di posta).

I suoi personaggi nascono da un lavoro su atteggiamenti fissi e ripetitivi, una scelta basata sul ritmo che richiama le maschere grottesche. È una dichiarazione d’intenti: Masina vuole distaccarsi dal mondo hollywoodiano che tanto criticava per il troppo realismo. Prediligeva invece la tradizione italiana che attingeva a piene mani dalla Commedia dell’Arte, la quale si basa su una riscoperta delle potenzialità attoriali e su una messa al centro della forza creativa dell’interprete attraverso dei paradigmi e dei codici iscritti nel corpo. L’attorice, in questo caso Masina, usa la maschera come veicolo per uno scavo nell’inconscio e per una investigazione dell’umanità e delle sue fragilità. Questa prospettiva riflessiva nel metodo attoriale non stupisce: “mi sono messa a recitare, cioè a rappresentare personaggi, per evitare l’obbligo di scrivere”, dice la stessa attrice. Aveva interesse a investigare l’anima umana e immergersi nel mondo e nell’arte esattamente come ambisce a fare uno scrittore, ma con mezzi diversi.
“Quando devo interpretare un certo personaggio, comincio a prepararmi, piano piano ci entro dentro, lo covo, al momento di interpretarlo lo vivo intensamente. Ma appena il film è finito non ne voglio più sentir parlare. Tra me e il personaggio è finita, lui deve cominciare a vivere la sua vita e io tornare alla mia”. Eppure, questo non avvenne mai da parte del pubblico.
L’immagine divistica dopotutto si alimenta dentro e fuori dal film, in una dialettica costante che lavora in entrambi gli ambiti auto-influenzandosi. Masina stessa, nelle promozioni dei film, attuò sempre un atteggiamento che rispecchiava i personaggi da lei interpretati. La sua immagine pubblica, soprattutto nel periodo iniziale del suo successo, ruotava intorno ai suoi ruoli e lei stessa rimarcava questa somiglianza attraverso atteggiamenti e vestiario. Fu anche per questo che Masina tenne dal 1968 al 1976 una rubrica di posta su La Stampa, Risponde Giulietta Masina, in cui donne di ogni estrazione sociale si confidavano con lei, chiedendo i consigli più disparati (solitamente riguardanti quesiti sociali come il divorzio). Il tutto confluì in un libro, Il diario degli altri, pubblicato nel 1975. È quindi chiaro che per le donne del periodo era comodo e rassicurante avere punti di riferimento con valori borghesi e tradizionalisti che potessero fungere da specchio in cui continuare a rivedersi. Era come se Masina avesse la funzione di autorità morale che dichiarava cosa fosse convenevole fare e cosa no, secondo gli usi e costumi di un tempo di forte cambiamento a cui l’Italia non era pronta.

Giulietta Masina era quindi una diva lontana dagli stereotipi attoriali basati sullo sguardo maschile alla ricerca di erotismo, ma allo stesso tempo nel panorama pubblico era un punto di riferimento patriarcale, tradizionalista e rassicurante. La creazione di ruoli ben riconoscibili e stilizzati contribuirà a rafforzare gli stereotipi di donna ingenua e assertiva, a cui verrà associata durante tutta la sua carriera.
Eppure, Masina non fu solo questo: rappresentò un nuovo metodo per distaccarsi da ciò che era presente nel panorama italiano del periodo, dove il mondo femminile attoriale rimaneva spesso incastrato in interpretazioni spettacolarizzate e stereotipate. Laureata e con una formazione teatrale alle spalle, si distinse nel panorama attoriale unicamente per la peculiarità della sua recitazione e per l’unicità con cui riusciva a portare sullo schermo i suoi personaggi. Divenne in questo contesto un esempio della progressiva diversificazione della vita artistica dal secondo dopoguerra, in cui le vie per il successo attoriale femminile non passavano più solo per la sessualizzazione ma divennero più complesse e divergenti, permettendo una maggiore emancipazione in un panorama basato sullo sguardo maschile.
Parlare di Giulietta Masina oggi significa tentare di rendere giustizia ad una donna relegata per troppo tempo al ruolo di moglie assertiva e di musa ispiratrice, quando in realtà era prima di tutto un’attrice di talento che ha saputo costruire personaggi iconici e senza tempo: se fino ad oggi rimangono impressi nell’immaginario collettivo è anche e soprattutto grazie al suo contributo. Le sue stesse parole si trovano poche volte negli studi che le sono stati dedicati, eppure sono proprio le interviste che ci restituiscono una visione di Masina come ente creatrice del suo stesso lavoro. Quando parla del suo ruolo in Giulietta degli spiriti (1965), si afferma completamente estranea a quella Giulietta: “Io non sono mai stata sottomessa a nessuno, […]. Ma ti pare che io facevo andare via mio marito così, senza una parola, senza neanche avere il gusto di una spiegazione? Altro che lasciarlo andare, io gli avrei spaccato la testa”.
Insomma, non proprio il personaggio della musa passiva che le volevano cucire addosso.
c.m.





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