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Sacralità contemporanea: il carme di Daniela Pes

La Biennale Teatro 2025 volge al termine, e in vista dell'evento conclusivo che si terrà il 15 giugno è stata da poco annunciata una performance che segnerà l'incontro tra dimensione teatrale e musica. Protagonista della serata sarà un'artista che negli ultimi due anni ha conquistato il panorama musicale internazionale, affascinando migliaia di ascoltatori di tutto il mondo: Daniela Pes.

Daniela Pes
Daniela Pes

Musicista gallurese classe 1992, conclude la sua formazione jazzistica presso il Conservatorio Luigi Canepa di Sassari, e da essa trae e mantiene un’assoluta libertà compositiva e una qualità del suono che sfugge alla maggior parte della musica che oggi affolla le classifiche.


Copertina dell'album Spira
Copertina dell'album Spira

Il suo album d'esordio, Spira (Tanca Records), ha infatti dato una scossa a una scena musicale italiana un po’ stagnante, aggiudicandosi il Premio Tenco 2023 per la Miglior Opera Prima e numerosi altri riconoscimenti (tra cui il Premio Ciampi, il Maria Carta e il Lucio Dalla per la Miglior Artista).


Le sette tracce del disco, prodotte dal conterraneo Jacopo Incani (in arte Iosonouncane) sembrano svilupparsi più come flussi sonori continui che come brani individuali, un percorso d'ascesa verso una profondità e un trasporto straordinario, che avvicina l'esperienza di ascolto ad una sorta di rituale sciamanico.



Definire il genere di Spira risulta perciò difficile, significherebbe intrappolarlo in gabbie di aggettivi sempre insufficienti a coglierne tutte le prodigiose sfumature. Quello di Pes è un suono che spazia dall'art-pop alla musica elettronica sperimentale, in cui influenze ambient e noise si mescolano ad echi folk, un richiamo quasi inconsapevole alla tradizione popolare sarda.

Spira non lo definirei esattamente un disco sardo. Trasuda provenienza, ma senza aver utilizzato nessuno strumento tradizionale, armonia o lingua propriamente sarda” chiarisce la musicista.

Il richiamo alle radici dell'isola, tuttavia, seppur trasfigurato rimane solido, e fa trasparire una conoscenza intima e istintuale della natura che la circonda. Il cuore pulsante della poetica di Daniela è proprio l'elemento naturale, tanto dal punto di vista sonoro quanto da quello estetico. Il disco pullula di sonorità evocative: gabbiani, tempeste lontane, acqua che scorre, eco di voci che rimandano a grotte e caverne… Questa dimensione si riflette perfettamente nell'iconografia dell'album: basta osservare gli scatti di Piera Masala per avere la conferma innegabile che il territorio – con le sue cave di tufo, i laghi e i monti che si stagliano all'orizzonte – sia elemento fondante e unificatore.



La natura che emerge è incontaminata, da cui l'uomo sembra essere stato rimosso, o non essere mai esistito affatto; una natura interamente femminile, dominata da creature ancestrali e mitiche, che comunicano attraverso tonalità intense, oscure e trasportanti. Su queste tessiture si inscrive una voce invece limpida e delicata: un connubio che sembra provenire da un pianeta lontano.


Questa complessità emerge anche negli immaginari che si delineano tra le note, per quanto sia complesso interpretarli e definirli universalmente e con certezza. Si pensi alla fine di Illa Sera, che risuona come una litania, quasi una maledizione, oppure a quella di Ca mira, che invece sembra un invito al combattimento, un urlo di amazzone che incita le compagne a difendere la propria foresta dall'invasione. Forse è per questo che la sua musica finisce per ricordare la forza di alcuni movimenti antimilitaristi sardi, come A Foras, che si oppongono all'occupazione del territorio e alla produzione di armi, missili e bombe; le stesse bombe il cui suono ritorna simulato in Ora.

Tuttavia, Spira non è solo agitazione e invasamento: a questi momenti intensi si intrecciano i passaggi estremamente delicati di Carme e Làira, ninna-nanne tramandate di generazione in generazione, un antico canto di sirena che tuttavia conserva ancora la capacità di portare alla follia.


Rinchiudere questa complessità in un unico genere, dunque, equivarrebbe a tentare di spiegare con un linguaggio umano qualcosa che invece lo esula, ci gira attorno e gli si sottrae. 

La dimensione testuale, non a caso, sfugge alla consueta funzione di veicolare concetti e significati: la lingua usata dall'artista non esiste, è frutto della commistione di un gallurese arcaico, rari vocaboli italiani e lemmi e fonemi del tutto inventati. I versi vagamente comprensibili – come “Fiˈɡuɾa ˈkolma ˈsia” o “Ke ˈneɾa se ne ˈva ˈdalle ˈoɾe sˈkuɾe” di Carme – agiscono in modo violento e dirompente nel flusso sonoro, mandando in cortocircuito la rete dei significati. Si genera così qualcosa di inaccessibile dal punto vista razionale, ma inebriante dal punto di vista emotivo e sensoriale: Pes con la sua nuova lingua solletica un istinto primordiale che risulta in un inspiegata familiarità.


Fino a quel momento, la musicista aveva cantato su testi in gallurese antico e aspirava a musicare le poesie di don Gavino Pes, un sacerdote vissuto nel Settecento nel suo paese natio, Tempio Pausania. 

“C’era qualcosa nel gallurese che mi attirava molto. Ho iniziato a scremare alcuni aspetti della pronuncia che non mi convincevano e poi è nato qualcosa di mio, ho iniziato a metterci dei fonemi che non significano niente e che però io sentivo dentro di me.” 

Un'intuizione rischiosa, dunque, che però si è rivelata miracolosa: la musica diventa un dispositivo vibrante aperto alla più libera interpretazione, all'interno del quale ciascunə può inserire se stessə e la propria esperienza. Proprio l'intuizione è alla base del metodo compositivo dell'artista, che sembra così richiamare quello della sibilla: le canzoni nascono per visioni successive, melodie che si manifestano nella sua mente con una chiarezza cristallina.

Ciò si traduce in un’energia primordiale e atavica, che trascende i confini convenzionali della musica mainstream. Questo carattere ancestrale trova massima espressione nelle performance dal vivo, dove l'artista trasforma il palcoscenico in uno spazio quasi liturgico, che sfiora i confini del sacro.



Durante i live Pes sfiora la possessione attraverso una gestualità che richiama ritualità antiche: la testa rovesciata all'indietro, la reiterazione di movimenti ossessivi, l'ininterrotta glossolalia… Questi elementi fisici si innestano su una base musicale già di per sé fortemente ipnotica e tribale, traducendosi in ciò che appare come un'invocazione rivolta a divinità ignote che sembrano materializzarsi vividamente nell'aria densa dei club. È proprio in questi che l'artista ha scoperto la vera natura del suo rapporto con il pubblico, un'intimità forzata dagli spazi costringenti, inizialmente perturbante, quasi intrusiva, ma che si trasforma poi una sorta di dipendenza creativa. Sono più di centotrenta, infatti, i club che hanno ospitato lo Spira club tour, italiani e non solo: l'artista ha acquisito una fama internazionale che l'ha portata ad esibirsi in tutta Europa e ora anche negli Stati Uniti. 


Due anni sono trascorsi dalla prima data, due anni in cui l'artista performa la stessa scaletta, senza tuttavia farla scadere nel noioso o nel ripetitivo. Al contrario, ogni esibizione si rivela unica e irripetibile; il segreto di questa continua rigenerazione risiede nell'improvvisazione, elemento cardine che permea ogni performance e affonda le radici nella formazione jazz dell'artista.

Nasce così una tensione magnetica tra controllo e abbandono, generando un'energia che riesce a essere contemporaneamente strutturata e selvaggia, meditativa e travolgente.


È proprio qui, in questo equilibrio instabile, che si cela il potere della musica di Daniela Pes: la capacità di trasformare ogni concerto in un rito collettivo, un momento di catarsi condivisa che ha il pregio di riportare a contatto col sacro un pubblico ormai sempre più secolarizzato.


c.t.

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