Il respiro grezzo della vita: il teatro-danza di Pina Bausch
- Anna Milan
- 5 dic
- Tempo di lettura: 5 min
«Qualcosa sul tuo primo amore»
«Scarpe strette»
«Offrirsi»
«Tua madre»
Sono queste alcune delle suggestioni che Pina Bausch – coreografa, ballerina e regista teatrale del Novecento post-drammatico – pone ai suoi danzatori prima ancora di costruire una coreografia. Non cerca risposte perfette, solo brevi lampi di verità: ricordi, paure, gesti quotidiani capaci di rivelare l’essenza di una persona. Dal materiale caotico e intimo che ne scaturisce, nasce il suo Tanztheater, un teatro-danza che mescola vita reale e movimento, grazia e brutalità, humour e vulnerabilità.
Le sue opere sono mondi percettivi che divorano dolcemente lo spettatore, conducendolo altrove, ma, al contempo, dentro le contraddizioni dell’esistenza.
Philippine Bausch, in arte Pina, nasce nel 1940 a Solingen, in Germania. Trascorre l’infanzia nell’hotel-ristorante di famiglia, dove, da subito, osserva l’umanità nei suoi gesti più autentici e universali: è qui che, come lei stessa dichiara, risiede la chiave del suo metodo di lavoro, che la porterà a trasformare la scena in un microcosmo fatto di domande, stimoli e risposte, da cui scaturiscono, in seconda battuta, gesti e movimenti.
“La sera, quando sarei dovuta andare a letto, mi nascondevo sotto i tavoli e restavo lì. Trovavo molto entusiasmante ciò che vedevo e sentivo: amicizia, amore e litigi, semplicemente tutto ciò che si può vivere in un ristorante locale come questo. Credo che questo abbia stimolato molto la mia immaginazione. Sono sempre stata una spettatrice.”
— Pina Bausch
Si forma sotto la guida di Kurt Joos, antesignano dell’espressionismo nella danza, e dà il via alla propria carriera oltreoceano dopo aver vinto una borsa di studio alla Julliard School of Music nel 1959. Danza al Metropolitan Opera Ballet, al New American Ballet e nella compagnia di Paul Sanasardo.
Allo studio della danza integra corsi di drammaturgia e di recitazione, perché per lei il confine tra narrazione e movimento è un luogo tutto da esplorare. Firma le prime coreografie presso il Folkwang Tanzstudio, per poi approdare nel 1973 come direttrice al Wuppertal Ballett, da lei rinominato Tanztheater Wuppertal, a sottolineare il rinnovato matrimonio tra danza e teatro.

“I primi anni sono stati molto difficili. Spesso gli spettatori lasciavano la sala sbattendo le porte, mentre altri fischiavano o contestavano. A volte ricevevamo telefonate nella sala prove con auguri di cattivo auspicio […] Un giornale ha scritto come recensione: ‘La musica è molto bella. Basta semplicemente chiudere gli occhi’.” – Pina Bausch
L’immaginario scenico di Bausch è dirompente e trasformativo: come tutte le rivoluzioni, anche i primi lavori della coreografa sono accolti con diffidenza e talvolta con aperta ostilità; ma chi rimane si fa testimone di un varco che conduce a una nuova idea di teatro e di danza, un passaggio che permette di cogliere l’essere umano nella sua nudità più autentica.
Dalla fine degli anni Settanta, Bausch affina il suo processo creativo, il “metodo delle domande”. In sala prove, Pina osserva e invita i danzatori a raccontarsi senza maschere. A questa ricerca, segue il montaggio – come in un collage di azioni e, in misura minore, parole – di scene che evocano sogni, incubi e confessioni collettive.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’atto di riportare alla luce ciò che giace nelle profondità del sé – e la capacità di esprimere tutto ciò in scena – non avvengono affatto in modo spontaneo. Sono, anzi, il risultato di una solida padronanza tecnica, appartenente a corpi di ballerini che, proprio perché sottoposti a esercizi costanti e tenaci, tendenzialmente sono esenti dalla stereotipia dei movimenti quotidiani. Uno tra gli elementi imprescindibili affinché il metodo Bausch sia efficace è la vita comunitaria della compagnia, nel lavoro e nel privato: è fidandosi vicendevolmente che i danzatori sono in grado di mostrare il proprio paesaggio interiore.
Ciò che colpisce è che il montaggio realizzato dalla regista, Bausch stessa, funziona come una protezione per l’io dei danzatori. Le sequenze raccolte nei due mesi di “pre-produzione” e indagine vengono accostate e rielaborate nel risultato finale, in modo che per i danzatori restino ciò che erano all’inizio, mentre per il pubblico si trasformino in qualcosa di nuovo.
Nascono così tre delle opere seminali di Bausch, che ancora oggi girano in tournée con grande successo e sono considerate riferimenti della danza contemporanea.
In Le Sacre du printemps (1975), potente rilettura bauschana del balletto di Stravinskij, il suolo è ricolmo
di terra umida, costringendo i danzatori a piedi nudi ad affondare nella materia, mutando la danza in un rituale arcaico. Durante la performance, le donne si passano una veste rossa, simbolo del sacrificio: chi la stringerà per ultima sarà destinata a essere offerta. L’opera risente profondamente dei movimenti femministi nati all’inizio degli anni ’70 e, allo stesso tempo, ne diventa un veicolo. Al centro c’è l’idea di riappropriazione del corpo e del conflitto tra femminile e maschile, tanto che la scena è costruita quasi sempre su una netta separazione dei due gruppi.
Café Müller (1978) si inserisce tra le opere più rappresentative della danza del secondo Novecento. Ambientato in un café dopo l’orario di chiusura, indaga l’amore e la disperazione in quel limbo emotivo in cui uomini e donne non riescono a raggiungersi, travolti dalle loro stesse differenze. E lo fa con la reiterazione del gesto. Probabilmente, la sezione più celebre dello spettacolo è quella dell’abbraccio: due danzatori tentano invano di restare abbracciati. Nonostante l’aiuto di un terzo che riporta la coppia nella posizione di partenza, uno dei corpi scivola via dalle braccia dell’altro, cadendo inesorabilmente al suolo. La scena si ripete in una progressione drammatica che lascia senza fiato.

Coevo a Café Müller, in Kontakthof Bausch non racconta una storia lineare. Le scene si susseguono in modo paratattico e restituiscono al pubblico un universo di costrizioni e inadeguatezza. Sembrano svilupparsi su due piani distinti: la vita intima dei danzatori, libera e incandescente; la vita esibita, imposta, asfissiante. I dettagli più minuti diventano significativi. Le scarpe strette che limitano i passi; i corpi schiacciati da un peso che impedisce ogni movimento naturale. Tutto diventa metafora del disadattamento sociale, ma c’è sempre spazio per momenti di inaspettata comicità. Dopo due ore e mezza di tensione e disagio, emerge un’esistenza luttuosa. L’uomo, incapace di conciliare desiderio interiore a norme imposte, appare estraneo al mondo in cui vive.

La rivoluzione di Pina Bausch si inserisce in un solco che figure come Loïe Fuller, Isadora Duncan e Martha Graham tracciano dagli albori del XX secolo: donne che per prime scardinano i codici rigidi della danza accademica, affermando che il movimento non deve obbedire a una forma, ma esprimere emozioni, idee e impulsi viscerali. Il loro lascito collettivo è immenso e duraturo: aver dimostrato in modo definitivo e potente che il corpo danzante può essere, allo stesso tempo, un manifesto filosofico, un esperimento tecnologico e uno specchio fedele, a volte crudele, dell'anima umana.
Bausch raccoglie questa eredità e la porta in un territorio nuovo: non più soltanto la liberazione del gesto, ma la liberazione dell’esperienza umana, in un palco che può essere sporco e pericoloso come la vita.
Alla sua scomparsa nel 2009 Bausch ha già donato al mondo oltre cinquanta creazioni, conquistando un prestigio internazionale. Celebrata con i massimi riconoscimenti, la coreografa – qualificazione qui intesa nel più ampio senso possibile – libera la danza dall’apparenza e la riporta al respiro autentico e grezzo della vita, dimostrando che la verità più profonda non si trova nella tecnica, ma nelle domande che abbiamo il coraggio di porci.
Quali sono le convenzioni che, nella nostra vita, aspettano ancora di essere messe in discussione?
“Non mi interessa come si muovono le persone, ma cosa le muove.”
– Pina Bausch
Per le foto di questo articolo ringraziamo Pina Bausch Foundation:
a.m.




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